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© Toulouse-Lautrec, La Toilette, 1889.

Sicilia 1958: vite improbabili di una puttana

 

I vapori del vino ubriacano più del vino. E’ come il sogno al risveglio, più reale della realtà. E più doloroso. Quei vapori impregnano i polmoni e la mente, ubriacano chi non beve. La vecchia serva di Aida le è sopravvissuta, scende dall’abbaino, e s’ubriaca di quei vapori d’osteria. Nessuno offre un bicchiere ad una vecchia? Si siede tra i clienti, accende un sigaro, fissa il fumo dalle sue labbra secche. Ha gli occhi tremolanti come avesse bevuto. Ma non ha bevuto. Sono i vapori del vino. C’è sempre qualcuno che le chiede di Aida, una favola di quelle che non esistono, e bisogna far finta che esistano. Favola che esiste solo per i servi, per i deboli, i poveri ed i malati, per marinai senza paese, e ubriachi senza casa, per i servi. E’ un sogno al risveglio. Però non punge il cuore come il sogno della notte, questa favola è leggera, non addolora al risveglio, anzi addormenta tra vapori d’osteria.
Si siedono vicino alla serva portandosi una bottiglia di rosso al tavolaccio. Lei accavalla le gambette nell’antica gonna nera, e guarda il fumo del suo sigaro. E’ così minuscola che potrebbe anche sparirvi, in una nuvola di fumo, o in quella gonna troppo lunga. Racconta la favola, la prima volta di Aida. L’ho raccontata tante volte che mi sembra una favola, è più che una favola.
Che vuol dire, più che una favola?
La vecchia non si confonde nel fumo del sigaro, non si confonde mai. Ha fatto la serva per tanto tempo, una serva non si confonde. Una volta sola le è successo, quando Aida è morta, e ha preso dal cassetto il vestitino di bambina della padrona, non sa perché lo ha fatto, bianco come quello della comunione. L’ha posato su un tavolo dell’osteria come una reliquia, come fosse Aida stessa, viva e bambina. L’ho raccontata tante volte, dice la vecchia, però non è una favola. Anche se c’è un re, c’è una regina. E’ una fantasia piuttosto. Di quelle che stuzzicano, di quelle che rendono colpevoli d’averle godute, e giudici di chi se le gode, di quelle che fanno godere il mondo.
Non raccontarla più se è roba annacquata come il vino di muso di porco, non la vogliamo!
Il padrone ha sentito, vino annacquato, muso di porco, ha orecchie fini, deve averle il padrone di un’osteria. Ci si guadagna a spiare i discorsi degli ubriachi. Che avete detto laggiù? Per gli ubriachi come voi va bene il vino annacquato! Per chi non paga va bene il vino annacquato!
Sì, muso di porco, masticano sottovoce. E alla vecchia, facci godere le tue fandonie, allora. Non si torna indietro dalle menzogne, e dalle fantasie.
Ve la racconto, ve la racconto, si scompongono le nuvolette di fumo ridacchiando. Il vino torbido s’agita nella bottiglia per un tremore del tavolo, e le gambette della vecchia nella gonna cambiano posizione con uno scricchiolio di vecchie articolazioni. La donna tira due boccate, pare aver cambiato idea e non voler più parlare, quasi non ci sia nessuno degno d’ascoltare, oppure si voglia fare pregare.
Insomma che aspetti? Chi è stato il primo? E’ un’ossessione. A qualcuno arriva già un brivido al ventre. Già qualcuno si gratta nel posto, sotto i pantaloni di lavoro. A qualcuno scivola il bicchiere sul tavolaccio per un sudore delle dita. Qualcun altro s’avvicina per noia, non c’è niente nell’osteria, e niente fuori, esiste solo quell’aria d’alcool, tanto vale sfinirsi tra le stupidità.
La donna apre la bocca. La vecchia vuole che sia una favola, una di quelle che non esistono, che esistono solo per i servi che non ne possono farne a meno. Nessuno può trasformarla, meno che mai la serva che la racconta. I vapori di vino aleggiano su di lei, il fumo di sigaro svapora sulla sua faccia di cartone. Ora vi racconto, stupidi voi, e stupida me. Il cartone della sua faccia si distende per miracolo sulle piccole ossa.
Chi è stato il primo uomo?

© Toulouse-Lautrec, La Toilette, 1889.

Il primo uomo, ridacchia la vecchia tra il fumo di sigaro, il paradiso, il re. Il primo uomo è stato il mio padrone, lui era davvero il re. Così lo chiamavano al porto. E non c’era traffico che non passasse da lui, e dalla sua famiglia.
Qualsiasi traffico di legge e no, lo ricordano all’osteria del porto.
Di legge e no, come tutti i re, li zittisce la vecchia. Forse l’aveva rubata, o comprata, la bambina, non so. Forse da zingari o clandestini d’una nave. Un giorno me la porta in casa, una stella, la bambina più bella mai vista. Dico, non hai resistito ai suoi occhi, vero, padrone? Li hai visti, padrone? Lui non mi risponde. Occhi come il carbone, ma luccicanti, come la luna in un pozzo. Neri come il nero d’un pozzo, e luccicanti come la luna. Anche i suoi capelli erano neri come il saio della morte, e la sua faccina invece era bianca come il letto d’un uomo solo. E’ troppo piccola, padrone, mi lamento io, è sporca, chi ce la fa a ripulirla? Ripuliscila! Spelacchiata e sporca come una gatta rognosa, così me l’ha portata. Che te ne fai, padrone mio? Il mio padrone diventa serio, poi ride. La sua serietà metteva paura, voi non sapete, mai però quanta ne metteva la sua risata. E lui in quel momento rideva.
Chissà quanti ce ne sono in fondo ai moli con una pietra attaccata per una sua risata, bisbigliano attorno alla vecchia.
Pettinala, lavala! ride il mio padrone tra i denti. E io, subito, subito! Subito a scostarle i capelli appiccicati e ripulirle la faccina. Sotto lo sporco la gatta rognosa era dipinta tale e quale la Madonna del mare, quando la escono in barca per la festa, Madonna addolorata degli annegati, e Madonna delle grazie in mare. Ci pensate a quella faccina di Madonna, che dondola tra mare e cielo, ma con uno sguardo nero come un buco? Occhio buono il mio padrone! Ho già tanto lavoro in casa, questa gattina non è buona per lavorare, è troppo magra, mi lamento io appena posso parlare con il mio padrone, non è buona a niente, dovrò lavorare anche per lei. Portami in casa una ragazza robusta, padrone, una ragazza di campagna, quelle sì sono buone! Non l’ho presa per aiutarti, non ne hai bisogno, maledetta serva, sei tu responsabile di lei. Aspetterò, pensa di sicuro dentro di sé. Il mio padrone sapeva aspettare, sapeva torcersi i dolori nello stomaco, e doveva essere un dolore guardare la faccia di quella bambina, i suoi occhi . Ma lui sapeva allevarseli, i doloretti. Tanto, ne aveva doloretti da curarsi nel frattempo, lui, il re, il maschio più maschio del quartiere, il re del porto! Nel frattempo s’alleva quello di dolorino, se lo sorveglia ogni giorno, come una pianticella alla finestra. Che grand’uomo il mio padrone! Un vero re. Una volta, lo vidi sotto il chirurgo, farsi cucire una ferita di lama senza una parola. Nella schiena. Potevano accoltellarlo soltanto così, a tradimento, quel mio padrone. Crescila bene, serva! Non potevo che ubbidirgli. Io non gli avrei mai piazzato un coltello nella schiena, a quel re.
Brava serva, l’hai allevata come un pollo o un maiale.
Come ti allevi ogni giorno la morte in seno, stupido, la morte che ti piglia, ridacchia la vecchia tra il fumo. Come si chiama questa gatta sporca? gli chiedo, al mio re. Non lo so. Come la chiamiamo? Chiamala come vuoi. La chiamiamo… Chiamala Aida, ci ripensa d’un tratto lui. Forse aveva visto uno spettacolo, o conosceva un’attricetta, una che aveva avuta e le era piaciuta, e le aveva avute tutte, credetemi.
Così il destino è segnato, ed ha il suo nome, concludono attorno alla vecchia, quando c’è un nome c’è un destino, sentenziano. Ma era bella come una Madonna? domandano.
La vecchia capisce subito. Era bella Aida, come la morte quando si è malati e si è stanchi di soffrire. Come annegare quando si è stanchi nel mare in tempesta, come la grazia della Madonna in mare aperto.
Il suo corpo…?
Bello, terribile come l’onda della tempesta da scalare.
Il suo corpo, i seni, le gambe…? impazziscono.
Ma che volete? La vecchia ridacchia, conosce gli uomini, come ogni servo. Si perde nel fumo del sigaro. Aida cresceva, una pianticella messa alla finestra. Un bicchiere d’acqua ogni giorno per innaffiarla, il sole del giorno, e il riparo d’un vetro alla notte se è freddo. Non si può essere che verdi e belli così, maledizione.
Era tanto bella?
La vecchia nasconde un sorriso. La sua mente corre, era bella come una paura, come un coltello nella schiena, bella per un re, era bella come una morte, come un regno, come il cancro doloroso dei polmoni che se l’è portata via, bella come una luna in fondo al pozzo. Nessuna sarà mai più bella di Aida.
Era bella, mormorano accanto alla vecchia.
Cresceva bella, nessuno la toccava, se non le mie mani, cresceva bella per il mio re, bello e forte.
Era bella, mormorano ancora incantati.
Un giorno quel padrone mi dice, metti fiori freschi nella mia stanza. Perché? chiedo io. E già immaginavo. Perché? chiedevo, e già sapevo. Fiori? Un fiore deve stare tra fiori, risponde il mio re, quel fiore è mio stanotte. Era venuto il tempo, dopo tanto tempo. Quel fiore è tuo stanotte, padrone, gli dico, dopo tanto tempo. Però più il tempo passa, più cresce il piacere, gli dico, e stanotte li apri, i suoi petali, padrone, ti giuro che sono appena sbocciati, colorati e profumati come tutti i fiori che vuoi. Maledetta sguattera, ride lui. Ma quella volta, per una volta, la sua risata non mette paura. Te lo giuro, padrone! Non giurarmi niente, ride ancora lui, non credo ai tuoi giuramenti di serva. Questa volta non mento, per una volta non mento! Compra rose, molte rose, profumate. Sì, rose come lei che è una rosa, padrone, e il denaro? Maledetta razza di sguattere, dì a tutti che pago io, lo sanno chi è il tuo padrone, lo sanno chi è il padrone. Glielo dirò, basterà, mi farò scrivere la nota. Non importa la nota, tanto lo so come ti sei fatta il dente d’oro che hai in bocca, con i miei soldi, con i soldi della mia casa. Certo, padrone mio, se lo dice il mio padrone. Non gli importava di certe miserie, era un re. Bugiarda e traditrice come tutti i servi! ride lui, ma è una risata che non fa paura. Io gli guardo le labbra aperte, ombreggiate di barba grigia e bionda, fossi io quel fiorellino di stanotte. Certo, padrone, però non mento se ti dico che lei è una rosa, io gliela conosco, da quand’era bambina, e gliela insaponavo. Il mio padrone ride di più, e se ne va. Ha affari importanti. A lui è toccato comandare, essere re, e a me di servirlo.
Il vino gorgoglia nella bocca, nella gola, cala il suo calore nello stomaco, riscalda il ventre e i polmoni. Per il petto d’una vecchia bastano i suoi vapori, e il fumo d’un sigaro a scrocco. Il mio padrone! Aveva una mano grande per spezzare il collo di chiunque, e calda come un fuoco quando rimestava una donna. E ne ha spezzato di colli, ne ha riscaldato di donne.
Che ne sai tu?
La vecchia tira una boccata dal sigaro fra le labbra rinsecchite, ruba un sorso da un bicchiere. Il petto e la gola, il ventre si scaldano, è un flusso di sangue dove bagnare le storie. Peccato esser nata vecchia e serva. Avrebbe saputo lei che fare, con il suo padrone. Il re invece s’era allevata Aida. Come la mentuccia alla finestra, o come la puledra delle gare del santo. Così me l’aveva fatta allevare. E mentre la strigliavo, la puledra, per la sua prima festa – sempre sporca come un’asina di fattoria – mi pareva d’avere io la sua pelle e le sue forme di cavalla di razza. Te l’ho nutrita bene, mi dicevo. Lo dicevo al mio padrone, te l’ho allevata bene.
Allora? diventano impazienti intorno alla vecchia serva.
Allora, ho riempito la stanza di fiori, per la mia puledra, puledra di razza, figlia mia allevata. Fiori di tutti i colori, e profumi, appena sbocciati come lei, come lei che deve ancora sbocciare quella notte. Voglio lavarti io, oggi, le parlo all’orecchio mentre la lavo, mentre le accarezzo con il sapone la schiena, mentre l’asciugo e lei ha un brivido. Perché qualcosa ha capito. Continuo a mormorarle mentre preparo il letto grande della stanza, letto di padroni e re, letto d’uomo, su cui lei non ha mai dormito, mentre stordisco al profumo delle mie rose, al colore di rose, mentre accarezzo il lenzuolo dove lei si stenderà quella notte, e lo liscio, mentre le accarezzo la pancina e il posticino che godrà il mio padrone, che godrà la mia piccola. Bambina, dico, bambina mia, e non so dirle altro stupida che sono. Ma lei capisce. Nessuno capisce come lei. Mi preme la mano sul suo posticino. Ha capito, e già rabbrividisce. Come una pianticella al primo sole. Bambina mia, ripeto, e lei socchiude gli occhi. E’ stanotte? mi chiede la sua faccina di madonna ad occhi socchiusi, mentre preme la mia mano contro di sé e non parla. Lasciami preparare il suo letto, è il tuo letto, lasciami, sì è stanotte, ti pettino io stasera, le dico, bambina mia. Domani, domani non sei più la stessa, non sei più bambina, e non sei più mia, domani sei padrona. Domani, penso, domani. E continuo a parlarle mentre faccio il mio lavoro, a mormorarle all’orecchio, bambina, principessa, zucchero, farfalla, rosa, uccellino del mio cuore. E’ arrivato il tuo momento. Lui è il più forte e il più bello, le fa sospirare tutte, mentre passa per strada, sole o in compagnia dei loro uomini, mariti e figli non importa, ne ha fatto gridare tante, gridare dico, io le ho sentite su questo letto grande come il mondo, con queste orecchie le ho sentite. Farà gridare anche te. Mi farà gridare? La sento tremare un’altra volta. Sì che ti farà gridare, è uomo, e sa bene la sua parte, se lo sa, quello sguardo spavaldo che ha quando guarda una donna! I suoi occhi, bambina, sono spine di queste rose, pungono, solleticano o feriscono secondo il loro verso. Donne maritate e no, non c’è scampo quando passeggia e si gode il sole, quando si pavoneggia con tutte le sue piume sulle vie del suo regno, mentre si lima le unghie d’una mano, e regna in tutti gli angoli del porto. Lo spiano donne e uomini, gli uomini bestemmiano, e le donne gemono. Le donne gemono, e respirano l’odore della sua brillantina, quasi ce la facciano a sentirla, l’odore del suo petto tra i peli ricciuti. Ma tu tremi, bambina mia! No, non tremo. E’ la tua vita, bambina mia, ma tu lo sai, passerotta, lo sai. Sarà come mangiare e respirare, meglio, ti leverà la voglia di mangiare, ti mozzerà il respiro, bambina. Quando lui ti metterà la sua mano calda qui e qui ti si mozzerà il respiro. E ti entrerà dentro il petto e lo stomaco, il tuo bell’uomo, la sua brillantina, il suo sudore, mangiare e respirare, te l‘assicuro. E’ così? chiede lei dalla sua bocca muta. Sì, e tu lo sai. Le bisbiglio le altre parole, parole di madre e di donna. Stammi vicina, mi dice lei. Ci starò, ma non posso coricarmi tra voi due, rido io. Ride anche Aida. Quando rideva, la sua boccuccia era una rosa come il suo posticino.
Gli uomini pendevano dalle sue labbra, mormorano i clienti della bettola.
La vecchia sbuffa una nuvola di fumo più grande di lei. Quando Aida rideva, i suoi dentini erano perfetti, staccati come quelli d’un neonato, e le sue labbra erano una rosa di quelle che avevo sparso nella stanza del mio padrone per quella prima notte. C’era lo stesso profumo nel suo alito, di rosa ancora chiusa. Quando rideva fra dentini e labbra non c’era uomo o donna che resistesse, veniva voglia di cadere nel buco nero dei suoi occhi, occhi e capelli neri come la morte.
L’hai già detto, continua!
Una bocca di neonato, la sua, quella che strappi a baci, e ti fa felice. Io d’un tratto ero felice mentre le dicevo, ti profumo, passerotta, qui, e qui, lui verrà tra poco. La bacio sulla bocca e l’abbraccio come un neonato. Tu piangi, mi dice. No, non lo so. Forse piangevo. Come quando si stringe un neonato, o una sposa. La sua bocca, la sua pelle liscia… adesso sarebbero state di un uomo, non più mie, bocca e corpo di donna, di regina, e padrona, sarai la mia regina e padrona, pensavo. Perciò la lavavo, la profumavo, e piangevo. La vestivo di bianco come una sposa, di bianco come la comunione. Quel vestito, l’ho ripreso l’ultimo giorno. Sei cresciuta per questa notte, le mormoravo all’orecchio, e per tante altre notti, grida e sospiri, profumi e sudori, uomini e regali. Sei una padrona, adesso. Sei la mia padrona.
Diccelo ancora, liscia e profumata, Aida, l’hai vestita di bianco.
Ma la vecchia finge d’aver scordato come scordano i vecchi. Finge di pensare già ad altro. C’era profumo di gelsomini nella stanza, ce li avevo messi io.
Non erano rose?
Sì, rose. Che ho detto?
Hai detto gelsomini.
Sì, rose, certo.
Gli altri tentennano, sorridono, sputano in terra.
E’ arrivato lui, il padrone, il re, e dice sono stanco, brutta giornata. Stanco? dico io. Non ti stanca neppure il diavolo, a te, padrone mio. Sei tu il diavolo, sorride lui tra i denti. Anche questa volta non è pericoloso il suo sorriso, io lo capisco.
Ne sono spariti in mare con una pietra al collo per un suo sorriso, mormorano accanto alla serva.
Come fai ad esser stanco proprio stasera, padrone? dico io. Il diavolo deve avere la tua faccia di maledetta serva, quando muoio e vado all’inferno, la tua bocca maliziosa, e la faccia piena di rughe, non so perché non t’ho mai cacciata di casa. Non l’hai fatto, padrone, perché ti servo bene, e non ne trovi come me. Non mi ricordo la tua faccia se non rugosa come la cartapesta, dice. Sono nata vecchia, padrone. Sei il diavolo, vattene a letto! Sei il re, comandi tu. Certo, sguattera! Il padrone ci ripensa, l’hai preparata, le hai parlato? Di che hai paura, padrone, forse del diavolo? Devi essere davvero stanco, è pronta, e t’aspetta. Sei il diavolo. Sono il diavolo ma ho preparato il paradiso al mio padrone, vuoi che t’accompagni? Lui guarda la porta della stanza, vattene a letto! Adesso sei il mio padrone! Gli piglio una mano, siamo stretti nel corridoio, gli apro la porta del paradiso. Il profumo scoppia in faccia. Tutto pronto, dico a bassa voce, e gli lascio la mano. Vattene, dice lui ancora stretto a me. Ma esita un attimo. Non l’avevo mai visto esitare. Vi lascio in paradiso, gli schiaccio l’occhio mentre mi stacco da lui. La porta si chiude dietro il mio padrone, ma rimango dietro l’uscio, non resisto. Mi sembra d’essere a letto con quei due. Prima i respiri, lunghi, troncati, irregolari, poi un grido soffocato di sorpresa, lei, lei di sicuro, e un altro grido soffocato, lui, lui, non me l’aspettavo. Sorpreso anche lui, il mio padrone, che di donne ne aveva avute! Poi i sospiri. E di nuovo i respiri. Ma brevi, ripetuti, sempre più brevi. Sempre più inutili, più pesanti i polmoni, ed inutili, inutili i cuori che battono. E poi i rumori del letto, letto di rose e lenzuola di cotone, molle d’argento e oro, rumori dei loro corpi, mani, gambe, polmoni. Scappo via ma quei rumori m’inseguono. Quella notte mi sono coricata come avessi la febbre, nel mio letto, piccolo letto muto, più muto quella notte. Il mio letto non cigola, non si lamenta, pensavo, la mia stanza è muta, più muta questa notte. Si sentivano soltanto le mie labbra che recitavano il pater noster e l’ave Maria della notte. Ma erano parole uguali al silenzio. Dopo, il fruscio della mia mano che si prendeva un piacere.
Sghignazzano.
La mattina…
Sghignazzano.
La mattina, lui esce dalla porta della sua stanza bianco e malato come la luna di notte, con gli occhi lucidi d’un gatto di notte. Ha una fame che lo fa mangiare e tossire. Ricordami di farti un altro dente d’oro in quella bocca sgangherata che hai, mi dice ingozzandosi di tutto quello che trova, te lo sei meritato, l’hai cresciuta bene quella ragazza. Eccolo il dente d’oro, la vecchia si prende il labbro con due dita, eccolo, accanto all’altro, me lo ha fatto sul serio, era di parola, il mio padrone. Ancora caffè! comanda. Anche per lei, caffè, e tutto quello che vuole, vai a vedere, mi comanda. Sì, mio re. Non aveva mai avuto questa attenzione per le altre donne. Vai, che guardi? Corro, corro! Corro, e anche la mia bambina è bianca, ha fame, beve caffè come acqua, mangia affamata con la boccuccia senza traccia di rossetto – chissà dove l’ha lasciato, il suo rossetto! – Ha le guancine senza un filo di cipria, eppure l’avevo imbellettata per bene la sera avanti. Non ha più né rossetto né belletto, ed è pallida anche lei, fa il paio a quella luna di prima, la faccia del mio padrone – ed era già luna bianca Aida tra i capelli neri come la luna in un pozzo – Sbrana tutto con i dentini d’animaletto, e mi sorride, beve, tra un morso e un altro, ne ha appena il tempo. Avevo ragione, passerotta? le domando. Non mi risponde. Non può rispondermi, ha la bocca piena. Dev’essere pieno anche il suo posticino di vergine, non più vergine. E poi le parole non possono. Mentre mangia e mi sorride, con una mano libera s’accarezza le gambe e la pancia quasi a ricordarsi altro cibo, e altre carezze. Vuoi che ti massaggi le gambe? Devono essere stanche. No, no. Vuoi che ti lavi e ti profumi? Sei la mia padrona adesso, penso. No, mi dice come avessi detto una bestemmia, vuol conservarsi tutto, carezze ed il resto. Vuoi che ti trucchi, rossetto e cipria? No, vuole restare così. Vuoi stare a letto, passerotta? Ho capito, zuccherino, dico, magari lui torna… Ti tolgo le lenzuola sporche, te le cambio, no, non alzarti, alza solo le gambe, passerotta, l’altra, sollevala, ti metto le lenzuola pulite, sei la mia padrona, riposati, devi riposarti, è stata la tua prima notte, goditela tutta ora che è giorno, amore mio, padrona. Sapete…
Cosa?
Su quelle lenzuola c’era la bella chiazza di sangue che pareva finta, inchiostro rosso, e attorno un attaccaticcio d’uomo e di donna. Quel lenzuolo l’avrei appeso al muro come un’opera d’arte. C’era anche del mio, la serva ha fatto il suo lavoro, c’era disegnato questo. Vedete come si fa il servizio? Come si guadagna il proprio servizio?
Sicuro, sghignazzano intorno alla vecchia.
Aida mi dice, posa nel cassetto il vestito di ieri. Ha una voce fonda di donna mentre lo dice. Ho un sobbalzo, non le avevo ancora sentito quella voce di donna. Piegalo e posalo. Sa anche comandare adesso. Le ubbidisco. E’ quel vestito bianco che ho tirato fuori non so come, non so perché il suo ultimo giorno. Posalo bene, dice Aida. E adesso? chiedo io come una stupida, mentre ubbidisco come una stupida. Mi rintrona in testa, adesso? Non so che m’aveva preso. Fallo tornare qui, mi sussurra lei. Sì, adesso, sei la mia padrona, dico io malamente, ti ho rifatto il letto, sei la mia regina. Ne ho puliti da allora di letti disfatti della mia padrona.
Un’altra bottiglia di rosso, muso di porco!
Da allora le ho rifatto il letto, solo io, e nessun altro. L’ho sempre lasciata su lenzuola di cotone, e cuscini di raso, immacolati. Il suo letto è stato sempre molle d’argento come quello degli angeli in cielo. Io soltanto l’ho pettinata come una corona. Alla mia regina e padrona, al mio angelo.
Una regina? ridono.
Una regina, mormora la vecchia. Per una favola di servi. La donnetta ha fame e sete, e ancora voglia di fumo, che rimane a una vecchia?

Uno che racconta le storie ha bisogno di vino per trovare le parole. La storie no, le ha già nella testa. Senza neppure saperle. Ma per le parole ci vuole il vino. Le parole sono difficili.
Ce la racconti?
Certo, ma datemi da bere.
Prima racconti, e poi bevi.
No, devo bere.
Un bicchiere va bene, uno solo però, dateglielo, bevi e ingozzati.
L’uomo delle storie centellina il suo bicchiere. Deve farlo durare per architettare le parole, per sciogliere nel vino le forme che ha in testa. Sa già che ne chiederà un altro, e sa già che glielo daranno, perché sa quando chiederlo, a che punto della storia, nel punto in cui bisogna andare in fondo per forza. Perché, anche se le fantasie hanno già visto, e sono già nella testa di tutti, pure vogliono la storia, e la vogliono uguale alle fantasie.
Bevi.
Sì, sì. Il vino scende, gola, stomaco, ma poi sa Dio che strade prende, perché d’un tratto te lo trovi nel cervello, proprio dentro il cervello, e nel mezzo vi nuotano le parole, proprio le parole, quelle giuste forse, irrimediabili, e forti come solo le parole sanno essere, mai irrimediabili e forti. Era notte, notte fonda, e la bambina, Aida, sognava. Non sognò più da allora.
Cosa sognava?
Cosa sognasse non so. Come si fa a conoscere i sogni degli altri, se neppure ci ricordiamo i nostri ? Tu li ricordi? E tu? Non lascia il tempo alla risposta. Però i sogni ci vivono dentro, li ricordi o no.
A volte ce li hai raccontati, i sogni.
L’uomo che racconta le storie nasconde un sorriso furbo. Non li so, i sogni.
Continua.
Deve piacervi la storia! Eppure l’avete già sentita.
Continua.
Deve piacervi, malizioso, il cantastorie.
L’hai bevuto il tuo bicchiere!
Raschia la gola questo vino… piglia tempo il cantastorie.
Colpa di muso di porco, il maledetto padrone! Ci dà residuo di botte, che raschia come ogni feccia. Muso di porco, intonano.
Muso di porco, non ne hai di meglio? chiede il contafrottole. L’oste fa finta di non sentire. L’uomo che racconta le storie si rassegna. Guarda il residuo nel bicchiere, fa ruotare un fondo scuro. Feccia di vino. Le parole sono feccia di vino. Fermentano come il vino, e arrivano ribollendo in superficie. Arrivano come i sogni nel sonno, senza volere, ed è facile dimenticarle come i sogni. Era notte, attacca il contafrottole, e Aida dormiva nel suo lettino, ma quella notte di Aida era di quelle scure in cui le nuvole non hanno colore, il cielo non ha colore, e le strade possiedono solo la luce stentata di una lampada. Così gli piace iniziare, al cantastorie.
Ma la bambina era nella sua stanza! Perché parli di cielo e strade?
La bambina era nel suo letto, ammette l’uomo delle storie senza farsi distrarre, sul suo letto bianco di bambina, corregge. La sua testa riposava sul candore del cuscino, riccioli biondi, profilo di bimba, occhi chiusi e respiro senza rumore, una manina dimenticata fuori dalla coperta, porcellana con le unghiette sporche per i lavori del giorno. Però fuori, fuori della sua stanza, c’era il buio dell’inverno, duro come un pugno serrato, una mano alla gola, e quell’oscuro stava per entrare nella sua stanzetta. L’uomo delle storie s’intestardisce su di un particolare, quasi sia l’unico che interessi, buio duro, quella notte, niente vento, neppure un filo, nessun rumore, nessun uccello sui tetti della strada, solo nuvole basse che non portano pioggia, ma più buio e silenzio.
La storia!
Vi interessa la storia!
Ci pigli in giro, troppe parole!
Il contafrottole alza le spalle, tutto è parole. Le parole sono i sogni scordati della notte, che ci vivono in testa. Volete la storia, la storia di come nacque Aida? La sua nascita di donna, intendo. Allora ci vogliono le parole! Le parole che non hanno senno e misura. Sono qui, lì, da qualche parte, da qualche parte della testa, non si afferrano. O se ne afferrano troppe, senza misura.
La storia!
La storia, certo! La bambina dormiva nella sua stanzetta, con il fiato silenzioso dei bambini che paiono morti. Invece il fiato di quell’uomo era pesante. Ansimava avvicinandosi al buio, guardando il lettino dal buio, scrutando. La mano indugiava sull’uscio, lo accarezzava, liscio di vernice. Ansimava, e s’avvicinava al bianco lucente del lettino.
Non era buio? Ci tenevi. Da dove spunta il bianco lucente?
Un cantastorie non ha bisogno di coerenze, o di verità, anzi deve evitarle. Il cantastorie continua imperterrito, l’uomo s’avvicina, s’avvicina, più s’avvicina, più ansima. Sono il padrone, pensa l’uomo, sono il padrone, geme l’uomo, e tu sei tenera, Aida. Sei piccola, tenera, ed io grande e grosso.
Il contafrottole prende fiato, ripiglia, veramente quell’uomo è enorme, ma molle di grasso, e già puzza di sudore per quella bambina, suda per il solo movimento d’un passo, per il solo pensiero di quella bambina. Le sue dita ora trapassano dalla porta alla parete, liscia e perfetta anche quella, si spostano sul ferro del lettino, lo stringono, è freddo e liscio. Poi finalmente arrivano al morbido di lenzuola, lì è caldo e curvo, imperfetto. Premono sul materasso, come già un corpo di donna. Sono grande e grosso, pensa, e lei è piccola e tenera. Le dita scorrono sul materasso, verso le forme della bambina, sotto il lenzuolo, verso le sue gambine. Nude, voglio scoprirle, nude. Per il loro padrone. Per il loro padrone. Ecco, sotto il lenzuolo, ecco, l’uomo tocca finalmente il corpicino nudo che dorme, lo tocca. Un fremito vibrò nel grasso flaccido del padrone, e ristagnò in un sudore. Il contafrottole zittisce.
Allora?
Fatemi bere un altro sorso.
Ingozzati.
Il cantastorie non raccoglie. Le dita di quell’uomo prima sfiorarono…
E lei? Non si svegliava lei?
Lei non sentiva che un solletico nel sonno, nel suo sogno, come ali di farfalla sulle gambe.
Non si svegliava!
Il sonno dei bambini è innocente come quello dei morti. Però è intrecciato di sogni come giochi, sensi senza pensieri, brividi come ali di farfalla sulla pelle.
Forse anche quello dei morti.
Il cantastorie fa una smorfia. La mano del padrone è ancora leggera, ma solo per allungarsi il piacere, per farsi un poco male prima di prenderselo, il piacere. Sfiora. D’un tratto la sua mano afferrò, non poteva far altro. Erano le gambine magre della bambina, delicate come lo stelo d’un fiore, bianche come giglio nel buio. L’altra mano tirò via il lenzuolo, bianco lenzuolo. Il cantastorie si ferma. Ogni tanto un cantastorie deve pur fermarsi. Per pensare? Per non farsi sommergere? Per non diventare colpevole? Per osservare chi l’ascolta? Per avere un altro bicchiere? Vi piace la mia storia! Tremate come bambini.
Chi trema? Continua!
Lei si svegliò allora. Si svegliò con un grido. Ma era ancora nel sogno. Le farfalle caddero stecchite, d’un tratto, come a quelle trappole elettriche per insetti. Lei cadeva come una farfalla fulminata. Ad ali giunte come le mani d’una preghiera. Cadeva. Ma non fu quel fulmine a farle male. La caduta poteva essere un volo a suo modo, anche se l’ultimo. Quello che le fece male fu arrivare in fondo, restare schiacciata sulla terra, non poter muoversi dalla terra. Come una farfalla a cui sono state bruciate le ali, come uno scarabeo capovolto. La terra la schiacciava sulla schiena, anzi le si avvolgeva sul corpo, viva e mobile, la schiacciava sulla pancia, sul petto, sul viso. Ne sentiva l’odore, puzzo d’erba putrida, e soffio ansimante come vento d’autunno, vento putrido di foglie macinate. Forse c’era pure un sussurro, od un ronzio, da qualche parte, le arrivava alle orecchie, da strati di terra e pietra, ma non capiva. Dio, Dio, ronzava il padrone tra il grasso, ma la bambina non capiva. Dio, Dio.
Dio, diceva? Per paura? Per piacere? Per colpa, per godimento? Per il dolore che tutto finisca troppo presto, un sussulto, un rilascio di viscere e muscoli? chiedono gli occhi degli uomini attorno al cantastorie. Perché il grassone ripeteva, Dio? chiedono a voce. Proprio lui, proprio in quel momento!
L’uomo che racconta non ama le domande. Non ama essere interrotto. Datemi un altro bicchiere. L’uomo sa quando chiederlo.
Sì, un altro bicchiere!
Il cantastorie assapora, sciacqua la bocca, inghiotte. La bambina non poteva muoversi, prigioniera della pietra, pietra anche lei. Dio, ripeteva, l’uomo. Poi… poi… Fu uno squarcio tra la pietra. Un cuneo. Nel punto più debole. Lei non sapeva se fosse più il dolore che la liberazione, la possibilità d’un varco da cui sfuggire. Un cuneo, e un colpo di piccone, poi un altro, e un altro, nella fenditura, uno scricchiolio di sasso, e un dolore di sasso. La fitta, lo squarcio salirono fino in testa, spaccando il mondo, spaccando la pietra. Si liberava l’insetto. Il ronzio alle orecchie… il ronzio era quello, erano ali di falena che frullavano, tentavano un’altra volta il volo, non volevano restare seppellite. L’insetto volò via, quella notte, e si perse nel buio chiuso a pugno. La pietra restò.
Ha violentato una bambina, il maiale, si guardano in faccia attorno al contafrottole.
Un giorno la pietra sarebbe stata tanto dura da spaccare il cranio d’un uomo. E talmente morbida da accogliere il capo d’un uomo.
E la farfalla?
Il cantastorie ridacchia, alza le spalle.
Raccontacela bene, raccontacela tutta.
Il contafrottole rigira uno sguardo furbo. Da questa storia è nata tutta la storia, se volete, la storia di Aida. E’ strano come nascano le storie, le loro meraviglie. Come un fiume nasce dal sasso. A proposito – sapete? – quell’uomo finì con la testa spaccata da un sasso. Forse ve la racconterò. Ma non ci si può fidare d’un contastorie. E – sapete un’altra cosa? – in fin dei conti, a pensarci, le storie sono uguali e si rassomigliano tutte come fratelli gemelli, e – sapete? – io ho la bocca asciutta, mi si è asciugata la bocca.
Ingozzati, bevi! gli altri, allontanandosi.
Il cantastorie tentenna. Non è bene che secchi la bocca di chi racconta. Certo, però, hanno ragione, ogni storia delude, alla fine. E’ feccia di vino che scende giù nello stomaco dove non si sente più cosa raschia e cosa accarezza gli intestini.

Quando scola il tramonto sulla bonaccia, e i pesci angelo riposano nel fondo di tombe rosseggianti d’acqua, la figlia di Aida si mette alla finestra. Mara sta sul davanzale dove basilico e menta tra vasi di terracotta intrecciano steli come gambe in amore. Spirano fragranze rabbiose d’amanti, qualsiasi amore, inumano amore. Il mare è lì, sotto la finestra, torpido. Quell’immobilità si spinge dove l’orizzonte è stato preso dal sole, morto anch’esso sul mare morto. Per forza bisogna sciogliere i capelli, lunghi come non li ha mai portati sua madre, e pettinandoli pensare a chi non c’è, a chi non ha mai portato lunghi i capelli, a sua madre. Gli occhi di Mara diventano dello stesso colore di quel mare morto, e torpidi i pensieri come quell’acqua infinita, oltre lo strapiombo di scogli. Ci giocano i ragazzi, sotto gli scogli, fanno il bagno nudi, si tirano addosso le camicie inzuppate, urlano e si nascondono nel buio di grotte maleodoranti d’alghe marcite. Sono grotte che non si vedono dalla finestra, e s’aprono sullo strapiombo, nel nulla. Come il cuore di Aida quand’era viva.
Bisognerebbe canticchiare per disperdere i pensieri, ma dalle labbra esangui di Mara non esce musica, nessun ritornello. Non ha imparato a cantare al riformatorio, dove le ragazze cantano dietro le sbarre per ammazzare la giornata. Cantavano insieme, discordanti, su note diverse. Mara piuttosto si pettinava i lunghi capelli in silenzio, gambe incrociate, davanti alla finestra come adesso, ma dietro le grate tra la luce di fuori e le canzoni delle altre. Per chi ti pettini, stupida? insultavano. In riformatorio, tutto sfila come capelli staccati dal pettine. Che capelli lunghi, così lunghi! si stupivano le ragazze in riformatorio. Qualcuna glieli accarezzava. Perché t’hanno sbattuta in riformatorio? Hai spacciato, hai rubato? Ho rubato. Aveva rubato, ma con il coltello in mano. Ti sei fatta pizzicare! A me, s’intrometteva una ragazzotta infilando i suoi occhi di spillo, a me, si vantava, quando m’hanno pizzicata, m’hanno dovuto storcere le braccia per tenermi ferma, non ce la facevano, ma ho sputato in faccia a quelli. Avrai mischiato la sifilide a tutti, intonava un’altra. Ce l’hai tu la sifilide, tu e le puttane come te! Litigavano. Zitte, Mara è una ladra, ha detto che è una ladra, però… ha i capelli di una puttana, così parla chi comanda tra le sbarre e i muri del riformatorio, nelle latrine del riformatorio. E’ lei la più forte e prepotente, la cagna che è maschio senza volerlo, e comanda il branco, diventa maschio e forte per necessità, lo diventa per un dolore ed un piacere. La cagna maschio accarezza soprapensiero i capelli di Mara, belli e pettinati come una puttana in mostra, quanti portafogli hai sfilato nei tram? No, io rubo con il coltello! Sei di un’altra razza allora, però hai bei capelli, capelli di puttana, Mara. E’ la figlia di Aida, soffia un’altra. La cagna maschio blocca la mano ruvida sui capelli di Mara, l’ho conosciuta, tua madre. Ritrae la mano. E’ come se guardasse nelle grotte che s’aprono sul nulla. Io rubo con il coltello, ripete Mara.
Il mare risucchia il sole del tramonto, ed il buio si squaglia sull’acqua ferma, ora viene sera, e la stanza galleggia nel buio. Mara si pettina e ricorda, memorie come lunghi e deboli capelli per terra. Mara è una bambina, ricordo lontano, lungo capello, sottile ai denti del pettine, già perduto in un attimo per un volo di curve sul pavimento, capello che vola e scompare. Mara è bambina, e gioca con qualcosa che ha in mano, non vede cosa. Una delle bambole di sua madre? Sua madre gliene compra, poi in un impeto gliele strappa, abbraccia Mara se piange, ma così forte da farle male, la strapazza se piange, l’abbandona se ride, ride forte con lei, più forte di Mara, vorrei non essere qui, vorrei non essere Aida, vorrei che tu non ci fossi, Mara, vorrei che ci fossi solo tu al mondo. La scaccia, e dopo la stringe fino a soffocarla. Io non capisco, pensa la bambina, e gioca con qualcosa che non mette a fuoco, parla a quel gioco, gli dice quello che non può dire a sua madre. Forse coccola un pupazzo, nell’angolo buio della bettola, forse gli liscia il vestito, Mara non riesce a vedere nella memoria. Voglio star sola, mugola d’un tratto Aida, e relega Mara in un angolo d’osteria con un solo gesto, uno dei suoi senza rimedio, braccio candido nell’ombra, nubi di sigaretta e riflesso di bracciali. Sola, io non voglio mai star sola, si dice Mara. Aida si pente e chiama, Mara, Mara! Mara corre. Mara, dov’eri? Io non capisco, sussurra Mara al suo gioco che non vede, gioco misterioso da lisciare nel buio d’alcool della bettola. Adesso sua madre è nell’osteria seduta ad un tavolo, immobile, sembra morta. Nessuno osa avvicinarla. Ha le mani incagliate ad una bottiglia come un relitto dopo il naufragio. Non ha faccia, reclinata, non ha occhi, sono nascosti. Poi d’un tratto s’alza, getta la bottiglia sulla parete, va in frantumi. Gli occhi brillano, la faccia s’accende, i suoi capelli ardono, fuoco che non esiste in natura, capelli corti di maschio, che non si pettinano, e d’un tratto beve vino con i maschi e fuma con loro, sghignazza con loro, è pronta a tutto, a fare a pugni, spaccare bottiglie, scalciare o ballare, uccidere o accarezzare, è lo stesso, mordere le labbra d’un uomo o di una donna, è lo stesso. Mara nel suo angolo coccola il suo gioco, e s’acciglia per ogni risata, ogni moto di sua madre. In quei momenti anche gli uomini della bettola di sicuro non capiscono, infatti sono lì istupiditi, e per questo legati ad Aida.
Non importa. Adesso Aida è morta davvero come i pensieri che muoiono presto, è il capello staccato che s’attorciglia al pettine, e si strappa. Però non c’è mai stato pettine che abbia mai domato le sue onde e allineato la sua bellezza, si stupisce d’un tratto Mara. Piuttosto il pettine lo strappava, quel capello di nessuna capigliatura, capello di bellezza cangiante color di fiamma. Perché era bella Aida, anche questo istupidiva e faceva paura, bella prima di gonfiarsi per le medicine, bella, occhi e capelli d’un fuoco che non esiste. Mara dà un altro colpo di pettine. Basilico e menta sul davanzale si mescolano nel respiro di Mara. Sotto la finestra invece il mare trattiene un respiro senza amore, e s’arrossa come la faccia d’un neonato asfissiato. Scenderà la sera. E sarà soffocante come il giorno. Sera violacea senza respiro, che ingoia un giorno come un groppo alla gola, aria stagnante che ingoia le fragranze d’amore di menta e basilico.
La ragazza fissa il suo pettine, il suo ricordo. Aida è viva nell’osteria, svetta la sua bottiglia tra tutti, ubriachi, e puttane prima che si dividano le strade del porto, sventola tra chi resta sobrio anche se beve, e suda gelido, tra chi tiene la pistola tra pelle e camicia e vi strofina le dita, tra chi ha fame e chi mangia troppo da affogarsi, tra le mogli e le figlie che cercano gli uomini che non sono tornati. La bottiglia scintilla tra le teste degli uomini delusi dalle vie – ci sono stati, sulle vie, a giocarsi la camicia e cercar donne – La bottiglia agita tra ragazzotti scappati di casa, e marinai traballanti in terra che in mare. Aida smanaccia su tutti, e la sua bottiglia è spada e vessillo. Mara invece rimane nel suo angolo puzzolente d’osteria.
E’ bella Aida, e d’un tratto è gonfia, ansimante, malata. Perciò non può venire al riformatorio. Non può esser lì alla porta del riformatorio quando Mara esce dopo aver scontato i suoi mesi di ladra. Aida non c’è, neppure malata, neppure appoggiata al muro, o sotto l’ombra cercata d’un balcone, nell’abbaglio d’agosto e gerani fioriti. Dicono che ho un brutto male, nei polmoni dicono, avrebbe potuto mormorare a sua figlia se fosse stata lì, però sono venuta, sono qui per te. Invece con c’è nessuno uscendo dal portoncino del riformatorio – bisogna chinarsi per entrarne ed uscirne, da quella porta, sempre chinare la testa – Mara l’avrebbe voluta lì, sua madre, alzando la testa, finalmente fuori da quella porta, finalmente a testa alta, sua madre, Aida malata e stanca, meglio malata e stanca. Mara l’avrebbe sorretta tra le ombre pendenti sulla via. Sei gonfia, Aida. Sì, sono gonfia. Sei ancora bella, lo sei, sei più bella, e sei qui, Aida. No, non sono bella, la faccia… le occhiaie… il male… i miei capelli… non ho più i capelli, le medicine… Un corpo gonfio s’abbandona all’ombra del muro, cemento e mattoni, del riformatorio. Perché non sei venuta mai a trovarmi, Aida? Perché sono malata. Non è per questo, volevo lasciarti libera. Libera, in riformatorio? Vorrei che tutti fossero liberi. Non dovevi lasciar libera tua figlia, Aida, io non capisco. Il portoncino del riformatorio sferraglia e rintrona. Il corpo gonfio di Aida avrebbe potuto sospirare, poi ansimare, appoggiato al muro, ombra e cemento, fammi appoggiare, Mara, c’è caldo, non respiro, sono molle e stanca, fammi appoggiare. Non so se ce la faccio a tenerti, Aida. La ragazza sente il peso di sua madre sul braccio, peso che trascina. Mara è dura, carne di gatto randagio, ma quel peso può piegare. D’un tratto il peso non grava più, diventa leggero come un capello staccato, il peso non c’è più. Nelle strade seccate dal sole c’è solo il geranio che sfalda dai balconi crudi d’agosto, cade una foglia secca in un gemito di scirocco. L’afa di quell’agosto inventa incandescenze oleose, gonfiori nella maglietta di Mara, nei suoi seni, sbuffo di polmoni malati. Come i polmoni di Aida che non c’è.
Basilico e menta ora si stringono di più nei vasi della finestra, sono più forti i loro odori, ma sfatti. E più lontano, di più suda anche il mare immoto, un’aria che riempie le narici di marcio. Sa di sale e rame, tra basilico e menta disfatti. Mara dà un altro colpo di pettine. Pensa che niente può accendere i tramonti annebbiati dello scirocco di primo autunno, anche i pesci angelo scompaiono tra uno strato e l’altro di mare, tra liquide lenzuola. Un altro colpo di pettine, i capelli volano, Aida vola, atterra e s’avvolge in chissà quale ultimo posto di ombra e cemento, seppellita a spese del comune, Mara non sa dove, non vuol saperlo. .
C’è uno stropiccio di piedi. Dev’essere il suo uomo. E’ tornato. E’ lui. Due giorni che manchi, dove sei stato? Lui sbatte una porta, dà un calcio a una sedia. Dove sei stato? chiede Mara inutilmente, lo chiede a se stessa. L’uomo s’è buttato sul letto, nell’altra stanza, ha acceso la radio. Una radio canta, sa cantare, ha imparato a cantare. Mara potrebbe amarla, una radio, oppure odiarla e distruggerla, buttarne all’aria gli strani circuiti. Non so dove sei stato tu, sussurra Mara tra sé, io invece ho rubato con il coltello, so dove bucare tra costole se devo farlo. La radio canta nell’altra stanza. Ti ho aspettato, ho pettinato i capelli, non aspetterò più nessuno. Invece lo sa già, che leccherà il sudore del suo uomo, si farà graffiare dalla barba selvatica di giorni sconosciuti. E si pettinerà ancora alla finestra davanti al mare. Come al riformatorio, dove si pettinava come aspettasse un uomo, e tutte cantavano come la radio. Fisserà i denti senza pietà del suo pettine. Aida aveva capelli cangianti come la sera al tramonto, corti che non si pettinano. Mara poserà un’altra volta il suo pettine, lo abbandonerà sulla finestra, tra capelli sfiniti dai denti d’osso, e cercherà tra quei capelli staccati e morti. Aida è morta. Chiuderà le imposte. C’è la radio. E c’è il suo uomo dietro una porta. Chiuderà la finestra sul tramonto fangoso del primo autunno.
Ma cos’era il gioco che aveva in mano nell’angolo d’osteria? Quel gioco che non vede nel ricordo più lontano tra i ricordi? Tenta di vincere le dimenticanze, le debolezze di capello. Intravede un luccichio. Sì… sì… era un coltello, sì, un coltello. Io rubo con il coltello, ricorda.

Mario Condorelli

E' nato a Catania nel 1977. Laureatosi in medicina lavora con responsabilità dirigenziali nel settore della Sanità. Ha esordito con la narrativa nel 2000 e ha quindi pubblicato romanzi molto apprezzati dalla critica.