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Caravaggio, Canestra di frutta, 1599

 

«Buona notte». L’ho messa a letto e poi sono andato in cucina. Ho aperto il frigo e cercato qualcosa da mangiare perché non avevo ancora cenato. Lei non era in casa fin dalla mattina e così avevo comprato una pizza per mia figlia ma io non l’avevo nemmeno toccata. Stappai una birra, preparai un panino e mi sedetti a tavola. Iniziai a pensare. Non ricordo di preciso tutto ciò a cui pensai. Ad esempio mi ricordai del nostro viaggio di nozze e dei biglietti aerei. Le valigie, i vestiti, le scarpe che dimenticò in hotel. Erano rosse, col tacco alto e sottile. La piscina, la colazione in sala e tante altre cose. Mi ricordai anche del fattorino che rideva con la sua faccia da idiota e dell’altro che invece si scusava.
In cucina non abbiamo molto spazio. L’avete visto, no? Se stendo le gambe sotto il tavolo arrivo a toccare gli sportelli vicino la parte opposta. Quell’inconveniente mi ricordava una cosa, cioè che non ero stato io a scegliere la cucina ma mia moglie. La cosa andò più o meno così: l’arredamento di casa era stato scelto bene o male da lei e da sua madre (mia suocera). Bagni, sala d’ingresso, camere da letto, studio, camere degli ospiti, soffitta e cantina. Avevano deciso tutto loro. Per la cucina invece, dato che di solito cucino sempre io, mi ero imposto d’essere io a scegliere. Così puntai su una cucina di qualità alta, molto grande e con un bellissimo tavolo bianco ampio, color perla. Le dimensioni della stanza sono notevoli e ci sarebbe stata tutta nonostante fosse imponente. Il costo era alto ma di sicuro sarebbe durata anche più di noi.
Com’è accaduto che ci ritroviamo quella cucina piccola in uno spazio così grande? Mia suocera per prima mise in testa il pallino a mia moglie che, non essendo io, secondo i suoi gusti, un bravo cuoco, non avevamo bisogno di tanto spazio. Lei inizialmente non era molto convinta delle parole della madre. Era pur sempre mia moglie e non voleva escludermi del tutto dalle scelte per il nostro nuovo nido.
Così non le diede retta e mi lasciò fare.
La mattina che dovevo andare a prenotare la cucina passò da casa nostra –la vecchia casa- una sua amica. Si era portata dietro un catalogo di mobili e ci giurerei che era venuta apposta solamente per convincerla a lasciar perdere la cucina scelta da me e a considerarne un’altra. Nel catalogo c’era una cucina piccola e mal disposta che le era piaciuta tanto per il colore rosso acceso e per la particolarità di avere gli sportelli in alto zebrati di bianco e rosso. Le domandai se volesse prendere quella e lei ridendo rispose di no, ovviamente no. La sera invece venne da me col sorriso stampato in viso e mi propose d’andarla a vedere in negozio. Io non volevo. Per me la scelta era stata fatta da entrambi tempo prima e non avevo intenzione di accettare un ripensamento, causato oltretutto da una sciocca che si faceva abbagliare dai colori delle cose che comprava.
Fu infastidita dal mio no e non mi disse più nulla quella sera. Ma due giorni dopo mi ritrovai in garage i mobili della cucina che non dovevamo prendere. L’altra era già stata bloccata e non dovette pagare nulla. Aveva insomma fatto di nuovo tutto di testa sua.
A discolpa parziale di mia moglie, devo dire che per quanto riguarda il denaro, il suo lavoro le permette di portare a casa circa il quadruplo del mio stipendio e per questo una grossa fetta di spesa è gravata sulle sue spalle. Ma, dato che anche io ci ho messo qualcosa che nel mio “piccolo” conta abbastanza, era logico che mi aspettassi di poter decidere qualcosa.
Così nella casa nuova, quando furono montati tutti i mobili, ci ritrovammo con una sala da pranzo enorme e una cucina striminzita e di fattura scadente.
Di queste cose ne sono comunque accadute molte ma alla fine parliamo d’oggetti.
Vi racconto invece una cosa riguardante nostra figlia.
Si chiama Cristina. Il nome lo scelse lei e non vi dico in base a quale ispirazione perché stentereste a crederlo possibile. Lo sapevate già il nome di mia figlia, vero? Ovviamente.
Mia figlia ha nove anni. È una bimba molto buona, silenziosa e dolce. È molto disordinata e ama le passeggiate. La mamma ha voluto mandarla all’asilo già a due anni, a cinque le ha fatto fare la Primina e adesso che è un po’ più grande studia da tre anni violino e da due pianoforte. Studia danza classica e fa pattinaggio sul ghiaccio, oltre ad andare a lezioni di nuoto due volte la settimana.
Per le scelte riguardo le sue attività ci siamo ritrovati spesso in disaccordo io e mia moglie. Avrei preferito ad esempio che rimanesse con noi a casa fino a quattro anni e poi iniziasse ad andare a scuola. Preferirei facesse un solo sport e che studiasse uno strumento alla volta. Nostra figlia, non so se l’avete capito, non ha un minuto libero per stare ferma a pensare o per giocare con le sue amiche. Ha la stanza piena di giocattoli e non li ha neanche visti tutti.
Ricordo che una volta io e mia moglie, quando mi impuntai che non dovesse frequentare le figlie delle sue amiche, litigammo aspramente. Io le ripetevo che non volevo che mia figlia diventasse come quelle lì, perché non aveva oltretutto nulla a che spartire con loro in quanto a indole. Lei sosteneva che era invece necessario che le si facesse frequentare solo il meglio della società e che dovevo esserle grato d’avere la disponibilità economica adeguata per introdurla in quell’ambiente.
Lo sapevate che il padre di mia moglie è molto ricco, vero? Ha pagato lui la prima casa. Interamente.
Alla fine comunque la spuntò lei e mi convinse facendomi notare che, per l’appunto, lei che era cresciuta in quegli ambienti era venuta su sicura di sé, benestante e adeguatamente preparata a frequentare certi salotti; io, invece, che non avevo ricevuto nulla se non una scarsa istruzione tecnica, non ero stato un lavoratore di successo e neanche in grado di coltivare alcunché di nobile come ad esempio un hobby artistico.
Mi convinse. Effettivamente, per quanto le sue parole siano state dure, devo riconoscere che ha avuto sostanzialmente ragione. Ho così lasciato che fosse lei a decidere delle frequentazioni e delle attività di mia figlia. La bambina, oltretutto, non ha mai dato segno di opporsi alle volontà della madre, i suoceri hanno sempre osannato il lavoro della madre, così come le amiche, e quindi pensavo d’essere io il solo a nutrire delle perplessità.
Qualche sera fa, portai mia figlia in braccio a dormire, la sistemai sotto le coperte e mentre le davo la buona notte, mi guardò con gli occhi luccicanti e tristi, si aggrappò con le mani piccole al mio maglione e mi disse: «Papà. Me ne voglio andare. Vieni con me?».
Le diedi un bacio sulla fronte e senza dire nulla le rimboccai le coperte. Aspettai in cucina che mia moglie tornasse. Attesi qualche ora. Nulla. Non tornò. Era uscita in abito da sera per un incontro dei suoi, tra le persone benestanti che frequenta lei. Ma non sapevo dove fosse e con quali persone di preciso. Si fece mezzanotte e allo scoccare dell’orologio di legno intagliato ebbi una visione.
Mi vidi figlio di mia moglie. Costretto a fare tutte le cose che faceva fare a mia figlia, costretto a vestire secondo il suo gusto, a parlare secondo le maniere indicate da lei, a mangiare tutte le domeniche dai nonni severi e pedanti.
Allora mi alzai, cadde la sedia, presi dei vestiti nella mia stanza e li infilai in una valigia. Presi del cibo e lo misi nello zaino. Raccolsi i miei assegni, le carte, i documenti, il denaro contante che avevo. Telefonai a mia madre e richiusi dopo poche parole – lei aveva capito al volo.
Andai nella stanza di mia figlia, aprii la porta e me la ritrovai sdraiata su un fianco con gli occhi sbarrati che ascoltava. Si tolse le coperte di dosso e mi abbracciò. Le dissi subito che la portavo dai nonni e lei mi chiese: «I nonni buoni?». Feci di sì col capo e lei si attaccò al mio petto come se avesse tenaglie al posto delle mani. Mi impediva di eseguire bene i movimenti ma non le chiesi di aspettare sul letto. Così in pochi minuti preparai tutto. La mia e la sua valigia. La presi in braccio meglio perché le sue braccia iniziavano a stancarsi e uscimmo. Chiamai l’ascensore. Dovevamo scendere tutti i quindici piani fino al parcheggio sotterraneo per prendere la macchina, ma nell’agitazione premetti il pulsante sbagliato e quando le porte si aprirono ci ritrovammo al piano terra. Il portiere ci vide. Non disse nulla, perplesso. Tornammo in ascensore e prima che le porte si richiudessero intravidi dietro l’ingresso di vetro dell’edificio una limousine nera da cui uscì mia moglie. Scendemmo al piano di sotto. Salimmo in auto e ci avviammo verso l’uscita dal palazzo. Ma dietro il cancello si piantarono tre auto scure e ci bloccarono la via di fuga.
Mia figlia mi abbracciò. Scesero dalle auto dei guardia spalla degli amici di mia moglie e ci separarono.
Da quella sera non vedo più mia figlia e, più che del carcere o della separazione, temo la montagna di denaro sotto cui l’hanno sepolta.

Caravaggio, Canestra di frutta, 1599