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Uno stupore quieto
di Mario Fresa (stampa 2009)

 

Nel nuovo libro di Mario Fresa, Uno stupore quieto (edizioni stampa 2009), ci ritroviamo nel  territorio dell’incertezza, in un dedalo kafkiano costituito da narrazioni sovrapposte e intrecciate  come dentro un romanzo, tanti romanzi (Romanzi è anche il titolo della sezione finale del volume). Dall’iniziale Metamorfosi, si sviluppa un tracciato di estraneità apparente alla vita, sotto forma di annotazioni molto comuni da parte dei personaggi, banali talvolta, che sono però rivelatorie di quanto inespresso e occultato proprio attraverso pensieri e parole prosaiche (e penso, a  sostegno di ciò, alle “algide” trascrizioni di Leonardo da Vinci riguardanti le spese per i funerali  del padre, che non lasciavano trasparire nessuna impressione emotiva, cosa fin troppo sospetta per un occhio analitico come quello di Freud  – cfr: Scritti sull’arte e la letteratura di S.Freud, edizioni Newton e Compton -). Un diario segreto quindi, nelle varie piste che il libro porta a seguire, nonché un trattato scientifico e poetico sulla banalità del male e il mistero dell’iniquità in terra. Eterogeneo per andamento stilistico, sviluppa alcune costanti, come quell’aspetto noir, da romanzo criminale (aleggia lo spettro di un assassinio), che viene affrontato con ironia e tragicità insieme (ci viene in mente il titolo di Manganelli che le fonde, Hilarotragoedia), e l’opposizione tra vizio e virtù, turpitudine e solennità, tanto care a quel poeta “bipolare” che fu Charles Baudelaire. Ma qui non c’è nessun indizio di imitazione, anzi, si sviluppa in forma autonoma e originale, una scrittura che muove le sue pedine-personae nell’enclave del mondo infero, sotto la giurisdizione del Sogno. Difficile (e questa è anche un’ulteriore affascinante sfida per chi si inoltra tra queste pagine), in alcuni momenti, distinguere il sogno dal racconto, metaracconto e sottoracconto, magistralmente fusi dall’autore. L’ossimoro del titolo, annuncia il tiepido respiro della nostra epoca, ne diventa emblema di mediocrità: “Questo corpo disossato, quasi irreale, / che un tempo chiamavamo meraviglia / e perfezione, adesso divenuto / come un osceno guscio / abbandonato, in un istante, con una fredda / crudeltà, con un strano / stupore quieto”. Sì, perché il corpo giacente per terra, può essere quello della moglie uccisa dal misterioso G., ma anche la nostra dimenticata infanzia, la sepolta capacità di stupirsi (e questa è la magia della poesia, che riflette mille rivoli di luce possibile in pochi versi), decreti di morte d’ogni illusione vitale e florida.
Così il lessico è fratto, i mozziconi di luoghi comuni delle varie voci vengono lasciati sospesi, per aria, all’intuito personale di ogni lettore, con grande padronanza dei vari livelli cognitivi (Maurizio Cucchi nella prefazione ha inoltre segnalato “la felice scioltezza musicale di pronuncia”). L’ironia invece, attraversa l’oroscopo, il calendario (pag. 65: “Eppure non si sta mica male, noi, non si sta: / siamo felici, noi; / che ne dici, per esempio, di andare dov’è stata / Giovanna in un albergo semmai dove c’è tutto: ma / [non bisogna in nessun caso / partire, ricordati, né l’otto / né il quindici / né il sedici: perché”…le congiunture astrali minacciano la quiete, appunto), o la psicologia, a pagina 62: “non è rara l’intensa avversione per la sporcizia riguardo a oggetti esterni, particolarmente abiti e mobili, che nei nevrotici può diventare estremamente esagerata; indica come segno particolare di un complesso erotico-anale l’avversione per la sporcizia della strada, e la tendenza a tenere le gonne molto sollevate da terra (eccezion fatta, naturalmente, per le ragazze, nel qual caso ciò è dovuto piuttosto a un impulso esibizionistico)”. Il poema di Mario Fresa, diviso in quattro sezioni, affonda dunque nell’immaginario inconscio e tra le cloache del viscido reale (melmoso, untuoso, oltre a ansioso, solenne, sono aggettivi ricorrenti nei testi), tra figure viperine, piccolo-borghesi, con la poesia unica Titania, forma di resistenza alla corrosività umana, “Nell’angolo accecante di questa dura luce di titanio, / perfino i nostri nomi sono finiti, adesso, nella rete / di un biancume formicolante, nel fragile / attrito di un ricordo”, che resiste più a lungo del suo creatore, oppure corre il rischio che “[…] queste parole saranno cancellate, dimenticate / [presto; / o finiranno in miele appiccicoso / o in un terribile segreto”.