Lebenswelt di V.S. Gaudio con Dino Buzzati sul Vecchio Facocero [i]
Il vecchio facocero certo che avrà una sua psicologia,
adesso che ha una certa età, il marrano è portato a considerare
con disdegno le miserie della vita, le gioie della famiglia
si appannano, i nipoti facocerini sempre tra i piedi
irrequieti e famelici, che molestia, e non parliamo
dell’alterigia dei puberali cresciuti, convinti che il mondo
e le cinghiale siano tutti per loro.
Il vecchio facocero adesso crede di essersene andato
a vivere da solo, metti che stava giù al mare, se n’è
tornato nel bosco all’Alessandria del Carretto o sotto
Albidona, o alla Canna e a Farneta, a Plataci, crede
che l’abbia fatto per impulso spontaneo, “ho raggiunto
il vertice della maestà belluina”, è convinto di
essere se non felice a metà della proprietà del gaudio.
A guardarlo come si aggira irrequieto, come ogni tanto
annusa l’aria sorpreso da improvvise memorie, ha erezioni
che Eric Berne dava al secondo grado, quelle del “Malanno
del Kent”, che qui il vecchio facocero ha ridefinito
come “Malanno dello Spirito che vola nella Controra” [ii]
per quel suo vecchio parente marrano che fumava
i toscanelli manco fosse Pannella, lo si vede tutto
asimmetrico nel grande quadro della natura,
povero fesso, marrano mille volte e adesso ti
hanno cacciato via dalla tua famiglia patriarcale,
vecchio facocero, perché eri diventato scorbutico
e pretenzioso, volevano metterlo in un caseggiato
della “Divina Provvidenza” di Rrushi [iii], ma lui voleva
andare in Basilicata, a Potenza; i giovani avevano
perduto ritegno, lui era un pedofilo incallito, ma quelli
lo spingevano da parte con colpi di zanne
e calci in culo, e le ragazzine gli urlavano contro
che diritto hai, vecchio porco rincitrullito, le nostre
mamme e le zie hanno lasciato fare,
sai com’era nel dopoguerra,sembrava che
ti avessero mandato quelli del Mondragone
o da quell’altro santo collegio dell’altra sponda,
così hai cominciato a menartelo, perché
nemmeno la mano morta al mercato
di fine mese ti lasciavano fare.
Sei qui, in questa piana, mentre si avvicina
la sera, e il mare non ne senti più
l’odore, e attorno non c’è nulla,
non ci sono le pietre che c’erano al
mare a Trebizecce, come dicono i Mormoni
a Salt Lake City, ti senti ancora più
facocero per via degli occhi stretti
sul desiderio e quando il sole discende
e sai che per questo il mare ce l’hai
al sedere, ti piace chiamarlo ‘ndènjura
pensando al fondoschiena di quella
zingara che chiamavano con le ultime
lettere del culo albanese, per via che
una “antenna per il fiore” così alla
marina non poteva che essere arrivata
da nordovest, e insomma hai questi
occhi stretti che ti fanno montare
in superbia perché pensi di essere
diventato più grande e in modo tale
che è una meraviglia che sai dove
te lo metti il (-phi) di Jacques Lacan,
che sai che pappagallo dell’altro
francese della sifilide Parrot ci vorrebbe
per raccogliere e contenere la tua
pulsione uretrale, ma in realtà
non sei tanto grande rispetto ad altri
giovani facoceri, anche se in un certo
senso sei magnifico, per essere una delle
più brutte bestie del mondo, l’età ti ha
allungato le zanne, ti ha inturgidito le verruche
ai lati del muso che son quattro
come il numero che nella Smorfia è
il porco, ti ha trasformato in un mostro
corporeo di favola che anche il drago Cilistaro [iv]
forse potrebbe cederti il passo o la vergine
della Commenda Gerosolimitana.
C’è l’anima stessa della selva, un incanto
di tenebre, protetto da antiche maledizioni,
forse anche dalla Besa, come una di quelle
carte che nel rudere di Parrotë vergate da
tutti i notai e gli esperti del diritto di appropriazione
indebita che, incapaci di scrivere nella propria lingua,
nero su bianco, manco ci fosse il soffio della
Madonna del Càfaro, vergavano i marrani nomi
e limiti, confini e bisacce, e nessun punto geodetico,
che testa immonda è la tua, vecchio facocero
anche se sei ancora convinto che sotto il pelame
scabro dovrà pur esserci un barlume di luce,
per via del cuore che adesso senti battere
perché davanti a te c’ un mostro nero e grandissimo,
forse più alto di un gazzellone, e tu aspetti e lo guardi,
pensi ancora di poter fare il gran marrano.
Lo strano mostro che mugola è fermo e all’improvviso
ti arriva un colpo tremendo, un rumore secco e sinistro
come quell’eucaliptus antico che crollò nel Bosco del Torinese
e sei un gran porco che si rivolta per terra, guarda
che polverone, e invece vorresti fuggir via, scappare,
allontanarti dal sole morente con quel mostro che
ti corre dietro, e sei solo e perduto, né dal cielo vuoto,
né da alcuna parte della terra infinita della Madonna
del Càfaro, quantunque a volte si riduca solo a
tre striminzite bisacce, potrà venire il soccorso,
la tua ombra ti precede, è più mostruosa e ambigua
di te e del gazzellone, ma ormai a che serve,
l’orgoglio vien fuori, gocciola tanto che resta seminato
per via, laggiù, al limite di congiunzione tra terra
e cielo, mentre la luce declina, e non c’è più
ad amministrare lo stato delle cose quello degli
acronimi all’immondizia e al catasto lunare della
luce prefettizia, gli altri banchettano, tutta la
famiglia, che è infinita e ha ramificazioni fin
oltre il mare e il sistema dei gazzettari del molino
nello stretto, le mogli, anche quelle giovani e
più porche, i giovanotti brutali e cornuti, gli
antipatici facocerini, e, Oh, è inutile negarlo,
hanno sempre la tavola imbandita, con quella
bottiglia di Spumante che non stappano mai, e
fanno sempre scorpacciate di radici e di polli,
ti lasciavano in disparte le pume verdi che
nemmeno i porci semplici mangiavano, e il
deserto del resto sembra più sterminato
anche se la densità delle tre bisacce è talmente
densa che quel famoso bagliore di luce
nemmeno dal sedere di quella troia raminga
avrebbe lievemente illuminato gli occhi stretti
del vecchio facocero, il tuo laido volto,
le orecchie irte di setole, e c’è la canna disposta
secondo l’esatta linea di mira, e allora
mentre il drago Cilistaro sopraggiunge dal Saraceno
con la precipitazione di chi teme d’arrivare
in ritardo, manco fosse la Notte Blu nell’Alto Ionio,
allora lo si vide volgere il muso lentamente
in direzione del sole, e c’era una pace immensa
e ci colse l’immagine della villa di quella famiglia
ombrona che s’era fatta sul demanio delle Trebizecce
come la chiamano tuttora i Mormoni di Salt Lake City
e il giardiniere che era di Oriolo e faceva il compare
del Maestro dello Spirito che vola nella Controra
se lo stava menando guardando una vaga figurina di
donna dalle vetrate già accese che tra echi di musica
e in mutande stava attuando un nuovo piacere singolare
di Harry Mathews, mentre i cani viziati chiacchierano
al cancello del giardino sbeffeggiando gli scalzacani
accorsi alla manifestazione del gaudio crepuscolare
della nobile ombrona.
Il mugolio del gazzellone che aveva le ruote si
spense e il vecchio facocero, perché c’era vento,
poté sentire la voce dei compagni liberi e felici,
rintanati sulle rive del torrente.
Non restava più nulla se non dare uno sguardo
al sole residuo e succhiarne con gli occhi
l’ultima luce manco fosse il latte della mammella
della “picirra” [v], per chiamarlo a testimone
dell’ingiustizia che si compiva in quello stato
di diritto, ma non successe nulla, del vecchio facocero,
che non aveva l’anima rudimentale del leone,
nemmeno quello della favola di Hemingway e nemmeno
quello del film della Disney, essendo un marrano
per giunta laico e, per quanto fosse umanamente possibile,
dedito quotidianamente agli esercizi della Battaglia dei Gesuiti,
e non aveva perciò nemmeno i privilegi e i diritti del pellicano,
fu respinto il ricorso per una seconda vita.
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[i] Dino Buzzati, 9.Vecchio facocero, in: Idem, Sessanta racconti, Mondadori, Milano 1958. Il racconto era già stato pubblicato, con il numero 17, nella raccolta intitolata I sette messaggeri, Mondadori 1942.
[ii] Cfr., per il Maestro dello Spirito che vola nella Controra, V.S.Gaudio, Lo Zen di Mia Nonna, © 1999.
[iii] “Uva”. Che era anche il nome dell’impiegato che “amministrava” l’ufficio postale delle Trebizecce, quando non era stata ancora istituita la Grande Anagrafe dei Mormoni a Salt Lake City. Comunque era già in funzione il sistema dei gazzettari codificato dall’amministratore del Molino dei Gazzi, altro che i sistemi di comunicazione di cui a Gli strumenti del comunicare di Marshall McLuhan, © 1964.
[iv] Al ritorno di una delle sette fatiche, Ercole doveva attraversare l’impetuoso corso d’acqua chiamato Cilistaro(oggi Saraceno) dove in agguato c’era il famelico omonimo drago. Cfr. Ercole e il drago Cilistaro, Trebisacce, in: Giulio Palange, La regina dai tre seni. Guida alla Calabria magica e leggendaria, Rubbettino, Soveria Mannelli 1994.
[v] Che deriva dall’arbëresh “pìç”(leggi:”picc”), “malocchio”, “fastidio, molestia”; e anche dallo schema verbale “pìçàr”(leggi:picciàr): “lanciare il malocchio”.