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Halima diceva ai figli che era allergica perché stava a starnutire come un cavallo.
“A cosa sei allergica mamma?”
“Alle nuvole, quante volte te lo devo ripetere?”
Rispondeva a Maka la figlia di una sorella di suo marito che era morta e se ne erano legittimata la bebè di due mesi. Shafi si trovava nella stessa stanza insieme all’Imam che abitava nel loro stesso immobile e lo aggiornava sui casi di morte araba del rione. Quando fu libero le chiese di raggiungerlo in camera da letto:
“Halima, ti disturba parlare? Maka si stava preoccupando della tua salute”
“Mi disturba di parlare solo alle teste bendate dei maschi. Quando compongo una risposta di più di tre parole non so mai se può piacere o no agli altri. Ogni certezza mi ha lasciato da quando hanno buttato la terra sul volto del mio primo marito giacente nella fossa su due assi di legno, da quando ricoprirono di terra il suo corpo, da quando i presenti al cimitero gli fecero ciascuno un giro attorno.”
“E’ questa l’unica certezza che esiste, quella che ci faranno a tutti un giro attorno. Sono convinto che muto può stare solo un vecchio, quando è saggio. Dove sei con la testa? Fra le nuvole?”
“Ho le nuvole dense in testa non la testa fra le nuvole. Inoltre lo so che la lingua è un animale da ammaestrare. Quando ce l’ho il tempo di farlo? Sto sempre a non scordarmi cosa mi spetta di fare. Figli di questa, figli di quella, figli miei, figli nostri, figli di parenti. Siamo diciassette, la bocca mi serve solo per mangiare anche se sono sazia di odori.”
“Non vuole essere un rimprovero il mio. E’ che ormai abbiamo preso un impegno con tutti loro. Dobbiamo trattarli con l’amore che Allah ci comanda.”
“Io ho capito che chi parla è morto, perché non ha via di uscita, si fissa con le sue parole ed io non mi voglio prestare parole come non mi presto soldi dagli altri. Sono allergica alle nuvole francesi, questa è la verità. Mia sorella Maha in questo paese ci è solo entrata con i suoi piedi. Ci è uscita con i piedi degli altri. E’ stata infilata dentro una cassa anche se tutta bendata. Non ha potuto essere sepolta come in Algeria. I francesi ci hanno fatto sempre morire sia là che qua”
“I Francesi attualmente ci sfamano, ci alloggiano, ci concedono i nostri diritti….Forse è meglio che parli poco!”
“Dalla finestra li vedo passare, davanti la scuola li sento parlare. Della dominazione c’è di buono che i nostri figli non hanno subìto per la loro lingua quando siamo arrivati qua, perché erano stati addestrati in Algeria. Come potrei aiutarli per i compiti visto che non so leggere né scrivere? Visto che non so quanti anni ho dato che non posseggo i numeri? Visto che quando me lo chiedono mi prendo quella immaginata che hanno loro di età? Neanche età ho io… lo capisci questo?”
“In Algeria non ti ribellavi e avresti dovuto, in Francia covi di ribellarti. Che dovrei dire io? Io che giovanotto scendevo dalla campagna verso il paese e che venivo portato in carcere perché mi tassavano di essere un presupposto rivoluzionario. Ebbene ti svelo qualche segreto. Mi torturavano. Mi spogliavano nudo, mi infilavano in una grande vasca piena d’acqua, aspettando che io confessassi d’essere un rivoluzionario e quando fingendomi morto, lo sembravo, mi uscivano dall’acqua, lanciandomi a terra, per confermarsi che lo ero veramente. Prendevano una bottiglia, la fissavano su una sedia, le facevano squagliare della cera sul collo e poi mi sollevavano in due. Mi alzavano e mi poggiavano con l’ano sul collo della bottiglia e mi ci calcavano sopra con la forza che avevano. E tanto altro, tanto altro ma i francesi di quest’oggi non sono quelli. Vedevo squartare le donne arabe incinte per buttarne il feto dentro il forno a legna, acceso. Vedevo sverginare come delle bestie le nostre donne. Sentivo dire che qui schieravano gli immigrati algerini lungo il fiume e li lanciavano in esso in pieno inverno nell’acqua ghiacciata. Si mettevano a braccia conserte sul bianco della neve e scommettevano ridacchiando su chi sarebbe morto per primo. Più volte mi misero in prigione fino a quando mio zio che lavorava al Consolato algerino non mi ospitò a casa sua garantendo su di me. Che dovrei dire io? Mi sono rivalso per avere questo posto di lavoro, di tutto ciò, stare fra loro, prigioniero sì ma dal loro lavoro. Mi rispettano perché non possono farne a meno. Un nemico si deve affiancare, non metterselo contro. Qui abbiamo tutto, aiuto e serenità. Prima che ricostruiscano e rallegrino gli algerini i nostri capi politici, saremo già morti noi.”
Shafi appena vedeva una donna che portava il sacchetto della spazzatura gliela toglieva dalle mani e gliela andava a buttare nel cassettone.
Halima bianca come il latte, crema di riso la pelle, mutandoni alla caviglia non aveva un modello di famiglia. Non aveva l’idea del ruolo però si ritrovava ad alzare lo sguardo per controllare la direzione nello spazio di ogni figliolo. Stava con Allah tra i piedi. Ad ogni marachella e stoltezza che combinava ognuno di loro, si puniva con un giorno di digiuno invece di punirli. Quelli non essendo mai rimproverati la risentivano buona e dispensiera. Invece se le figlie si ribellavano istintivamente si ritrovava sull’angolo destro della bocca un sorriso nascosto, il quale veniva recepito come un aizzare. Non avevano alcun orologio in casa, risentivano ogni agire in relazione al tempo che richiedeva, né ritardavano né si premuravano. Misuravano il ritmo del tempo legato ad ogni allontanamento del padre e della madre dalla stanza che scomparivano nella loro camera per dire le preghiere ed inseguire la direzione della Mecca:
“Ricordatevi che il sogno della vostra vita è di andarci almeno una volta e di fare sette per tre ruotandole attorno”
Quando Halima scambiava qualche frase davanti la scuola non tralasciava di informare:
“Io non possiedo, sono povera anche poverissima”
Se invece scherzava con i figli più grandi li rassicurava:
“Sono povera per soldi, ho solo la pensione di guerra del mio primo marito, se vostro padre muore prima di me mi lascerà anche la sua pensione, dunque non avrò bisogno di voi. Però sono anche ricca non fosse che perché ogni mattina sulle lenzuola di sotto posso piantare aromi per il mangiare cotto, da come lavate all’infuriata i vostri piedi. Sono ricca perché ogni mattina l’orchestra del vostro sedere mi sveglia, intanto i ceci devono essere abbondanti nel couscous…”
Si batteva come poteva con i suoi segreti, infatti intrufolava camomilla nel latte affinchè a scuola restassero calmi. Una simpatia, una comunicazione più gestuale l’aveva per Maka che essendo un po’ debole di udito le rispondeva ad ogni frase con una domanda:
“Come?”
Seguita da:
“Non so”
Con un sorriso che le pendeva verso il pavimento.

 

(Continua…)

Rosa Pedalino

Nata a Leonforte in provincia di Enna,dove ha trascorso l’adolescenza, si è trasferita a Parigi, ha insegnato alla Sorbona e ha, per anni, mantenuto rapporti di coordinamento con gli emigrati italiani. Adesso vive a Grenoble. Tra le sue pubblicazioni creative un libro di racconti Decamerone siciliano (Prova d’Autore 1989), e i recenti Agli àgli m'incipollo e Di me mi prendo e di me mi lascio (Prova d'Autore, 2011).