Al momento stai visualizzando Citolena

Oggi è un giorno triste perché la cattiva gioventù mi ha detto:
“Attenzione, io sono una persona etica”
“E tic a. Che tic ha che non si vede?”
Neanche mi si soffermo fisicamente vicino ed io non ci capii. Sono più confusa che persuasa per fortuna ho la mente che mi difende:
“Tanto, né te ne entra e né te ne esce, cara Citolena. Che mirra può significare? Che lui si e tu no? Sto gran pezzo di… che fa ti sta abbassando per salirsene lui?”
Le parole nuove che non hanno storia, me le sono caricate sulle spalle come la Befana il sacco, il carico. Sono prigioniera ogni giorno se ne presenta una. Sono arrivata al punto che pure le calze di nylon le mie dita sopportano per amor di libertà. Oh come questa strada è lunga e la memoria è corta.
Spesso mi ritiro nell’anticamera della fantasia e mi appare di somigliare a un animale ferito che sfugge, che fugge senza girarsi indietro per non riconoscere quelle persone che l’hanno inseguito a tradimento contro il culto della storia. Eppure non sono di secondo ordine perché sono precisa che più precisa di me c’è solo l’ombra mia. Mi sto allontanando dall’odio della memoria, comincio a sentirmi con un bisturi in mano, un chirurgo che opera la nebbia. Dite quello che volete ma spasimo di una bara di noce imbottita di raso rosso per dormirci a volontà. Naturalmente dopo il magisterio di scegliermi i vestiti dato che voglio incantare la morte. Ho il terrore di morire per sbaglio, più volte sono stata lì per lì. Adesso ci sto mettendo un niente a sentirmi un prete, a sentirmi dell’Onorata Società dato che non ci sto mettendo la faccia, sto nascosta e mi sono pure affibiata un soprannome, Citolena. Se qualcuno ha da ridire, su questo nome si può scialacquare, ed io resto inattaccabile, intatta, praticamente ‘nnocente. Che dirvi? Per darvi basto qualche molliccuzza di pane duro da masticare, ce l’ho, anche se a Santo Menico e a ora Pronobis e ve la passo.
Vi chiedo pur sapendo che per il regolamento del nostro gioco, non potete rispondermi.
“Esiste una vita senza sale?
Per gentilezza non mi rispondete:
“Senza travaglio pagato come di diritto, cioè senza grana. Che si può pretendere più del sale che consa la minestra?”
Qui abbiamo il grano ma la grana se la grattugiano a nord. A noi ci resta il pecorino…. e credo che mi spiegai bene! I nostri politici di cui votiamo le dolci parole all’italiana, di cui comprendiamo solo che avremo un domani ci trascinano a farci perdere la luna e la bussola.
Questa è la litania della Terra mia ma adesso non sto prendendo il microfono per comunicarvi della tassa che mi hanno ovunque fatto pagare:
“ La mafiosa”
Semplicemente perché una frase l’ho voluta dire non a metà ma un volta soltanto. Invece confermo semplicemente che sono di pancia.
“Non tornare piangendo perché ti do’ il resto. Io non voglio immischiarmi né inimicarmi col vicinato per cose e lacrime di mocciosi. La legge te la devi fare tu quando hanno cominciato gli altri hanno iniziato per primi a farti male”
Pare scherzo ma per me legittima difesa si chiamava.
E’ importante riconoscere la legge sotto ogni veste dove viene nascosta . Qui siamo immischiati cavoli e torsoli ma una cosa ci accomuna: la conseguenza della scelta. Per questo imbocchiamo una strada senza fine, dove le traverse diminuiscono e mano mano va scomparendo la gente che sa per informarci. Cerchiamo cosa c’è e c’è stata nella carena di ogni famiglia, cosa ci lava il pensiero che è impossibile cavalcare? Ho dedotto che qualche padre ha farcito di fame, di rassegnazione, di sottomissione. Non saranno i soldi a sfamare le ossa in quel caso. Ho conosciuto qualche madre che a cantastoria ha trasmesso sentimenti di rancore, di delusione, di rivoluzione. Mi sto infrascando il cervello visto che il dente di ognuno di noi doleva e duole nello stesso modo:
“Quelli che ammazzano, che rubano cosa gridano? Forse lo sregolamento di chi li ha messi al mondo?”
Che vi dire che può sostituire il cibo dove siete sprofondati? Qui respiriamo un profumo che fa pregare sin dall’infanzia, sparso sulle frasi fino a quando andiamo a letto, profumo di morte buona che è il fine e la mira di ogni vita qui. Chissà se la televisione può fare togliere l’ubriacatura di questo profumo visto che il dialetto si imbastardisce, visto che ognuno si scimmiotta nei panni di un’altra andatura delle cose. Oramai è scomparso l’odore dello zolfo che bruciava e si mescolava con la pipì nei giochi della nostra generazione. Con quel’odore mi nascevano le menzogne e mescolavo i sensi. Scommetto che fra di voi c’è chi dorme col dizionario sotto il cuscino per non perdersi la comprensione del sonno. E’ vero Dottore? Per causa spesso mi sento d’un occhio sorda, di un piede orba e sciancata di bocca. Mano mano che il tempo è passato mi sono imparentata col silenzio. Per causa il nord dice che i siciliani sono selvaggi, omertosi che ne sanno che qui c’è chi vuole morire con gli occhi aperti. Più si allontana più si può scoprire la verità, quella nuova in cui le parole hanno l’aspetto di una purga, credono. Sono le cose che a forza si fanno la loro strada, strade diritte, strade uguali.
Forse per questo chi ne ha fatte troppo di cose ha perso il filo e si nasconde dietro un Santino, ma da quale paradiso provengono i loro Santi? Non si può negare che ogneduno si fabbrica un Dio su misura per continuare a piacimento. Mi sa mi, sa che il mio tentativo di sfogarmi vi fa sorridere, tanto siete liberi, vaccinati, siete grandi in quanto noi non conosciamo il diminuitivo, neanche per chiamare un bambino lo usiamo. Nasciamo vecchi e questa è mafia. Certamente vi farò prendere qualche fegatata, ma che ci vogliamo fare se le lumache escono e salgono dove possono e noi no. Noi siamo infarinati e fritti dal culto restiamo. Di radica lo siamo perché ci siamo nati. Per essere sincera in questi momenti non sono tutta, sono angariata perché l’Italia va avanti senza di noi e noi restiamo terra terra, terra di sospiri e di pazienza, Trinacria, ce l’abbiamo in tasca come un portafortuna a cui sono appese le chiavi di casa. Ora ditemi che senso ha che inseguiamo i personaggi già fatti, ci danniamo per esistere e non riusciamo a essere protagonisti? Stiamo a spingere ma che, ma chi? Che senso ha la mafia che si cangia l’abito e non il nome? A scuola chi ci andò se ne pentì, non si può essere unico senza amico politico o figlio di abbiente. La coperta è stretta e non si possono coprire tutti. Benedette le donne che sii smuovono adesso, è l’unica salvezza, l’unico cambiamento possibile. Nessuno qui è più sicuro come una volta di non avere le corna. Finì il marito mafioso nel suo piccolo in casa, fini la moglie che faceva musica insieme al figlio con gli schiaffi su pretesto d’educare. Finì la moglie che appena resa madre non poteva riuscire ad essere altro. Finirono i coglioni quadrati e obbligatori della donna di ieri, perché oggi si chiede:
“Perché sono nata qua? A che mi serve sta vita? Mia nonna e mia madre non parlano come me, non sono pronte per scombussolare, io si. Basta di abitudini, basta di guardare indietro che è rassicurante. Basta di essere schiavi sia della mafia delle parole, sia di queste associazioni a delinquere dove ci si fa chiamare ancora Padrino. Padrino aveva un cuore una volta, aveva un fegato. Quello di oggi non tiene neanche un guardiano del passato, è un approfittatore mortale”
Qui mi fermo e vi racconto che una siciliana all’antica quando si videro i primi Sexy Shop durante il passeggio fu presa dal panico dell’ignoranza:
“Giurami su tua madre che non entrerai mai in un posto simile.
Ci sono tende nere, ci entrano i finocchi, che ci fanno là dentro? Chi ce lo dice che in questi luoghi di perdizione uno non entra masculu e nesci fimmina? Lasciamo queste modernità ai nordici”
Mi ci sto bagnando il pizzo senza vino a pensarci… rido perché ste cose pure esse sono cose che si fanno strada da sole. Ma a proposito di pizzo. Vedete quante espressioni uso della parlata mafiosa. Ah Signore abbi pietà me che non penso prima di pronunciare. Su che vi racconto lo slalom tra i mafiosi all’insaputa.
Ero in prima media, comunista fino al midollo osseo, la professoressa ci assegnò un compito insolito:
“Vi armate come potete ed andate a scavare dalla bocca dei più anziani i loro ricordi sui mafiosi della zona, insomma morte e passione”
Quando informai i miei genitori ci fu scontro e battibecco fra loro:
“Questa fa politica… è assurda… ciò può comportare che, si può riversare su… Questa settimana la tieni a casa così la nordica se vuole sapere ci mette la sua di faccia”
“Perdere una settimana d’imparare? Restare indietro dei compagni? Essere vista come una fifona lei che non se ne tiene una sulla lingua? Hai sbattuto la testa? Tanto più che un giornalista fa pubblicare l’inchiesta su un giornale che si chiama Europeo e lo legge pure l’altra metà della terra? Questa non te la faccio passare”
Niente mi rimase di quella esperienza. Eppure mi guardavano in un altro modo, neanche la rivista ho come ricordo conservata. Era il registratore che mi accattivava. A quei tempi Mafia per me era parola senza storia però il giornalista scomparve. Me lo ricordo perché in certi servizi della televisione lo mettono in evidenza e non mi piace la fine che fece.
Alle superiori timida com’ero arrossivo perché per me un compagno seduto nel banco accanto al mio mi guardava, mi mirava e mi diceva sottovoce:
“Perché non mi guardi?”
Un giorno disse una frase alla professoressa che lo istigava:
“Non stare a perdere i sensi, a spasimare a bocca aperte. Quella non ti vuole. Per questo non studi. Ora ne farò informare tuo padre”
Che le disse non lo saprò ma lei divenne colore carta e gli chiese scusa con le lacrime agli occhi. Stava seduto ad un compagno che aveva l’aria di essere il padrone di Palermo. I papà di entrambi insieme ai lo fratelli partirono per l’America e quando dopo anni sono tornati ci fu un regolamento di conti.
Dovevo uscire con mio padre, non riuscivo a far girare verso il basso i miei capelli e temporeggiavo. Mio padre mi disse aprendo la porta che non stava al mio servizio, che non avevo che da scegliere l’autobus. Contrariata uscii spettinata. Siamo passati davanti la Regione Siciliana. Eravamo a due traverse successive che sparavano al Presidente e morti pure fra i passanti, per sbaglio.
Ho avoto per mesi un amico che bazzicava nei miei dintorni, capii col tempo che era per farsi un alibi e studiare la città o altro. Era quello, agli albori, che oggi fu l’ultimo Padrino.
Ci vuole un misto per fare un mondo. Ce lo abbiamo ma come sarebbe bello se ognuno volesse vincere solo su se stesso…..
Nelle famiglie, nella razza c’è scappato sicuramente uno col Pom Pom… Acqua passata si dice. Il guaio è che morti alcuni se ne ripetono altri come modello. Il guaio è che nel loro linguaggio si riesce a volte a cambiare solo il nome e mai il verbo. La maggior parte spera che si possa cambiare in questa isola. Ciò mi ricorda la guerra nei racconti di sopravvissuti:
“Avevamo come Dio volle accoppiato più tipi di legumi secchi. Gli aerei a sei a sei benedicevano dall’alto lasciando andare qualche bomba. Noi giovani avevamo deciso per non dare nell’occhio di accendere la legna lontano assai di dove eramo accampati, un casolare. A turno o a pari e dispari una di noi si partiva correndo per non fare la legna e mescolare: Sempre come Dio volle furono cotti al punto giusto che dalla fame ci sembrava di mangiare un dolce. Eravamo felici di riempirci l’orba, anche se avevamo dovuto saltellare su morti gonfi di tutti i tipi. Ci eravamo seduti, avevamo diviso quasi a contare tra brodaglia il numero dei ceci. Ci soffiavamo sul piatto e cercavamo di raffreddare sventolando un coperchio: L’acquolina in bocca non ci saziava, arrivarono i sei aerei, noi ci scherzavamo perché eravamo incoscienti:
“Alla faccia vostra”
“Venite a mangiare con noi, coraggio”
La frase non fu finita che subito arrivò una bomba a pochi metri. L’istinto non fu di essere fortunati perché ancora vivi, fu quello di coprire con la mano, ciascuno la sua minestra. Passata la tempesta abbiamo ripreso il cucchiaio ma ce n’era una che piangeva. Alcune schegge erano finite dentro il suo piatto. Si mise a girare tra di no e ciascuno gliene dava una cucchiaiata della sua come se le regalasse un giorno di vita”
Così è la Mafia. Ci pare, ci speriamo di lavare l’isola di questa vergogna. Quando ne siamo convinti succede che ci rendiamo conto di esserci passati accanto
Una persona anziana mi ha detto:
“Finalmente che preferisco i tempi della guerra. C’era la fame nera, c’era la paura. Che è cambiato? Qualcuno aveva un cuore, qualcuno un fegato, ma oggi? Non c’è niente, nessuno cede il posto sull’autobus, nessuno ti porta un sacchetto strapesante nella via. Non c’è rispetto, già sbarbatelli hanno la guapparia, non sono padroni di se stessi e si credono padroni degli altri. In quest’andazzo non mi viene più di cantare ed ho paura di comandare sugli altri per dire:
“State zitti perché lo scroscio del fondo del vostro parlare mi dà alla testa. Ho visto di tutto, non mi sono potuta privare di niente.”

Rosa Pedalino

Nata a Leonforte in provincia di Enna,dove ha trascorso l’adolescenza, si è trasferita a Parigi, ha insegnato alla Sorbona e ha, per anni, mantenuto rapporti di coordinamento con gli emigrati italiani. Adesso vive a Grenoble. Tra le sue pubblicazioni creative un libro di racconti Decamerone siciliano (Prova d’Autore 1989), e i recenti Agli àgli m'incipollo e Di me mi prendo e di me mi lascio (Prova d'Autore, 2011).