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Elias Canetti

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Emil Cioran

Due grandi pensatori morti a poca distanza di tempo: Emil Cioran nel 1995 e Elias Canetti nel 1994. Vent’anni dunque sono passati. E nessuno ha pensato, né l’anno scorso né quest’anno, di ricordarli come meritano. Cioran è sepolto a Parigi nel cimitero di Montparnasse insieme alla moglie Simone Boué; e Canetti a Zurigo (vicino a James Joyce: si apprende da Wikipedia).
Cioran, quando viveva ancora in Romania, il suo paese, ha debuttato come pensatore antisemita. Il bulgaro Canetti era di famiglia ebrea, di lontane origini ebree. Visse in Austria fino all’Anschluss, poi per ovvie ragioni si trasferì in Inghilterra. Cioran invece rimase per sempre a Parigi: vi era stato mandato nel 1937 dall’Istituto Francese di Bucarest. E lì, nella città e nella nazione offesa dai tedeschi, rinnegò i suoi primi scritti e cambiò radicalmente opinione sugli ebrei, accorgendosi che “hanno il privilegio” di vivere un doppio dramma: essere uomini ed essere ebrei. Cioran scrisse numerosi libri (di saggi, pensieri, aforismi, frammenti e i trentaquattro segreti Quaderni 1957-1972 che Simone Boué, trascrivendoli, ha salvato dalla distruzione cui parevano destinati dopo la morte del marito), ma nessuna opera di narrativa. Canetti scrisse importanti saggi, riflessioni, opere come Massa e potere e La provincia dell’uomo, e un solo romanzo: Autodafé. Quello in cui il suo dottor Kien dice la frase “questa verità mente, deve scomparire”.
Cosa voleva dire Peter Kien? Voleva dire che ci circonda un mondo dominato dalla paura. Paura dell’altro, paura di essere toccati. Paura che induce a costruire muraglie intorno a noi, a cercare labirinti in cui nasconderci. Ma non è il mondo d’oggi? Il mondo che alza muri e barriere d’ogni genere per respingere profughi e migranti?
Claudio Magris dice che Autodafé è un libro agghiacciante perché pone davanti a un mondo su cui non si è posato alcuno sguardo umano. “Questa verità mente, deve scomparire”. Questa verità è la vita nei suoi inganni, nella sua varietà e nel suo deserto. Kien vuol combattere la paura che soffoca il mondo: e in questa lotta, che è poi irrigidimento contro la vita che cambia, si perde. Insieme al mondo soffoca se stesso, il suo Io. Prosciuga ogni suo desiderio sino a non vivere più. Il senso di tutto questo è che di muraglie sempre più alte ed estese ha bisogno la nostra sicurezza. Tali da soffocare in definitiva la vita per la cui difesa sono state costruite.
Cioran ha scritto che i romanzi sono stati le sue migliori letture, le più sconvolgenti. Ma che questo non gli ha impedito di odiare la visione da cui procedevano. L’obnubilata visione letteraria dell’esausta civiltà occidentale, che dava allo scrittore lo stesso credito attribuito “al saggio nel mondo antico”. Per Cioran il romanzo era usurpatore per vocazione: si era impadronito di mezzi “che appartengono in modo specifico a movimenti essenzialmente poetici”: si era venduto a tutte le cause: era diventato la prostituta della letteratura; nessuna decenza lo tratteneva dal violare ogni intimità. Quando non vedremo più romanzi nelle vetrine delle librerie, scrive nella Tentazione di esistere, una civiltà fondata sul futile sarà finita; e con lei anche la paura della noia, ancora più forte della noia stessa, che si prova tutte le volte che ne apriamo uno.
Se il romanzo è una prostituta, scrivere libri d’ogni genere e pubblicarli è ancora peggio per questo nichilista disperato che vive oltre. Oltre la filosofia. Oltre la letteratura. È una perdita d’innocenza, una barbarie nei confronti della nostra intimità. È una profanazione, una sconcezza. Il letterato non può divulgare le proprie tare e miserie per divertire o esasperare e mostrarsene fiero. E si chiede Cioran cosa spinge “uno scrittore che ha già scritto cinquanta volumi a scriverne ancora un altro” quando nulla c’è più da costruire né in letteratura né in filosofia. Nei Quaderni confessa di essere debitore ai libri distruttivi, negatori, “acidi”. Ai libri tossici. Gli è debitore perché lo fortificano risvegliando la sua reazione al veleno che contengono. Per Cioran niente è più convincente e insieme più esasperante del pessimismo. “Quando leggo un libro nero, ne condivido gli argomenti finché lo leggo; ma quando l’ho finito, mi detesto per averlo apprezzato e cerco in tutti i modi di distruggerne le tesi. Questo mi capita anche con i miei stessi lavori, cupi in sommo grado. Quando ne termino uno, provo una gran voglia di rinnegarlo, lui e tutto ciò che ho fatto; ma non ci riesco, non posso ripudiare il mio lebensgefühl, né adottarne un altro, poiché quello che ho è tutt’uno con la quasi totalità delle mie esperienze, con la mia stessa esistenza. Mi è impossibile cambiarlo o preferirgliene un altro”. Più un libro è “tossico”, più agisce in lui come un tonico. Per questo, avendo letto tutto ciò che poteva farlo “affondare”, ha potuto evitare il naufragio.
Cioran era un grande scrittore, ma considerava futile la letteratura e mostrava perplessità (scrive Mario Andrea Rigoni) sul suo “statuto di autore”. Ammirava molto Michaux, il suo spirito solitario e intrattabile. Henri Michaux era uno scrittore vero, e così diabolicamente intelligente! Il difetto che aveva? Quello di scrivere tanto, di essere vittima del suo lato belga: assiduo e laborioso.
Canetti avrebbe potuto rispondergli che “si scrive perché non si può parlare ad alta voce con se stessi”, che è una meraviglia alzarsi nel dormiveglia e mettersi a scrivere nel dormiveglia, e che fintanto che si scrive ci si sente sicuri, invulnerabili. Canetti scriveva per questo (forse): per non sentirsi cupo, disperato, minacciato da cento pericoli. Scrivere era la sua muraglia, la sua difesa. Anche se poi, rilette una volta stampate, senti le tue vecchie frasi come un pezzo di vita che se n’è andata. Non ti appartengono più, perché “agli uomini l’esistenza pubblica succhia il sangue dell’anima”.
Cioran venerava scrittori come Tacito, Montaigne, Pascal, Dostoevskij, Emily Dickinson, Baudelaire e Yeats.
Tra quelli più cari a Elias Canetti – oltre a Dostoevskij, Gogol’, Herzen, Walser, Pavese e al tedesco Büchner – c’erano Machiavelli, Cervantes, Abraham Sonne. Ma uno su tutti, imprescindibile: Stendhal. L’autore della Certosa di Parma era la sua giustificazione, il suo amore per la vita. “Vivere, io ho potuto vivere – scrive Canetti nel saggio La rapidità dello spirito – solamente perché c’è Stendhal”. Leggerne venti o trenta pagine quando stava per affogare gli faceva ritrovare la libertà. La lettura di Machiavelli, i cui pensieri scaturiscono dalle sue personali esperienze con i potenti, assopisce l’ostilità di Canetti per il potere, che tuttavia considera sempre come il male assoluto. E più invecchiato della stessa fede.
Guardandolo in faccia senza pregiudizi, l’autore del Principe indaga sul potere “esattamente” come Canetti indaga sulle masse. Cervantes, giunto con grande ritardo alla notorietà, gli è caro perché un po’ riflette il suo stesso criterio di cosa sia “una visione epica”: l’amore appassionato per la vita anche “davanti ai suoi aspetti più orribili”. Spesso Cervantes si permette di falsificarla, ma la ama così com’è.
La grandezza del Don Chisciotte, per Canetti, consiste nell’idea e nell’ideale come illusione; e nelle conseguenze, nel risultato che questo genera. Può essere comico, ma a Canetti “sembra terribilmente serio”. Quanto al poeta austriaco Abraham Sonne, è l’unico da lui ammirato senza riserve.
Sonne era senza macchia. E faceva parte di quel numero di uomini che “volevano essere dimenticati e scomparire del tutto”. Da lui, che “sapeva parlare nel modo più esauriente e articolato”, Canetti ha appreso cos’è il silenzio: “la migliore delle cose”.

Nel 1984 Cioran scrive una lettera a Mario Andrea Rigoni ringraziandolo della “pena che si dà” per la pubblicazione dei suoi scritti sul Corriere e per le parole “così generose” rivolte alla Tentazione di esistere. Gli dice di aver riletto il proprio saggio sugli ebrei – Un popolo di solitari, che ne fa parte – e di averlo trovato ancora attuale. Perché, “alle prese con quasi tutta l’umanità, essi sanno che l’antisemitismo non rappresenta il fenomeno di un’epoca, ma una costante”. E perché il mondo si divide in due categorie: gli ebrei e i non ebrei. I tedeschi li detestavano perché vedevano nell’ebreo il loro sogno realizzato, un destino superiore al loro: “si volevano anch’essi eletti: nulla li predestinava a questo stato”.
I suoi Quaderni 1957-1972, più di mille pagine, che la moglie riordinò permettendone la pubblicazione, ricordano Lo zibaldone di pensieri (1817-1832) di Giacomo Leopardi. Persino nel lasso di tempo – quindici anni – impiegato da questi due grandi per raccogliere note, aforismi e osservazioni. Frammenti di idee come frammenti di vita. “Ho scritto soltanto saggi, considerandoli sempre dei preludi, la mia carriera non è andata oltre” confessava Leopardi al suo ammiratore Charles Lebreton. “Tutti i miei libri sono mezzi-libri, saggi nel senso proprio del termine” gli fa eco Cioran qualche secolo dopo. Pur conoscendolo poco, scrive Mario Andrea Rigoni, Il Recanatese era uno dei poeti che Cioran venerava. E forse leggendo Lo zibaldone aveva capito che le illusioni sono la sola realtà del mondo. Quello che Cioran infatti scrive nei Quaderni – “se tutto è illusorio, di reale non vi è per l’appunto altro che l’illusione” – Leopardi con parole appena diverse l’aveva scritto un secolo prima. E prima di lui Cervantes, come abbiamo detto, che tra le illusioni metteva anche l’idea e l’ideale. Con le sue conseguenze. Comiche all’apparenza, ma terribilmente serie per Canetti.
Il pensiero di Cioran consiste essenzialmente nel pensare contro se stessi, nel percepire l’essenza delle cose ma lasciandole scorrere: la dottrina dell’abbandono dei padri taoisti e l’insegnamento di maestri come Nietzsche, Baudelaire e Dostoevskij (“acquistare esistenza separandoci dal nostro essere”) è quanto veramente ci serve. L’uomo non desideri nulla, sia apatico, indifferente a tutto e sarà invulnerabile. Ma come è possibile rendere operante questa massima, si chiede Cioran con sfiducia, se la nostra stessa apatia è aggressività, se l’epoca moderna è iniziata con due isterici, Don Chisciotte e Lutero, e se invece di limitarci a guardare le cose vogliamo modellarle, torturarle con le nostre rabbie?
Non parlava in nome degli uomini o degli dèi: né gli né gli altri facevano per lui, uomo senza discepoli. Uomo solo, che non si lamentava di esserlo.
Alla fine Cioran e Canetti – che non so se si sono mai parlati, conosciuti, letti a vicenda – si ritrovano su una figura sempre presente in tutte le strade del mondo: quella del mendicante. Guardarla è un conforto: nessuno incarna meglio – scrive Cioran – un pensiero che si risolve nel suo essere. Non ama il lavoro e lo dimostra; la sua spoliazione e la sua pigrizia sono condizioni della sua libertà.
Per Canetti pure Dio s’inchina davanti al mendicante. E meglio se è sordomuto. Perché Dio “cerca un uomo che ancora non ha mai udito il suo nome”.