Al momento stai visualizzando Autunno

Un vecchio, bianco per antico pelo
(Dante, Inf. III, 83)

L’autunno
A molti altri (e non è un “altri” generico, bensì un “altri” ben concreto, modellato nella mia testa sull’immagine di amici e parenti), a molti altri – dicevo – l’autunno, e specialmente l’autunno che quasi già si trasforma nell’inverno, non piace per nulla.
A me, invece, novembre, principio di dicembre, sono i momenti che amo di più, quelli che ti gelano il cuore e ti stemperano i pensieri nei ricordi più angoscianti oppure, al contrario, e talora capita anche questo, i più felici.
Quando si pensa, poi, all’autunno in Piemonte il pensiero corre immediatamente, il più delle volte, alle colline ed alle vigne, alle colline ed ai filari pieni di grappoli d’uva o, più tardi, già spogli dei loro tralci e pronti, come ragazze ricoperte di pensieri in mezzo alla nebbia, a vestirsi nuovamente del loro marezzo, di un colore tra il verde, il marrone ed il rosso scuro.
Niente di tutto ciò. Per me l’autunno in Piemonte è il Po, la pianura, la più piatta e la meno popputa a cui si possa pensare, che si svolge appena a sud di Torino, tra le strade tutte gobbe e storte tra Carignano e Carmagnola, con l’angolo acuto del triangolo che va a sfrecciare, strappandola in mezzo al suo cuore, verso Moncalieri, punta di questo triangolo che, ogni volta che lo guardo su di una carta geografica, mi fa ricordare – absit iniuria verbis – il triangolo di Dio, la geometria della potenza divina, il segno dell’indifferenziato, il punto e il segno del passaggio dell’angelo sterminatore…
Avevo preso la decisione venerdì pomeriggio: avrei passato il fine settimana viaggiando, in treno e poi a piedi, lungo questo pezzo di terra che, specialmente in questa stagione d’autunno, è chiusa nel mio cuore. Una specie di ritorno ad un’infanzia mitica, anche se questi paraggi a me parlano soltanto nelle parole di mia nonna, che me ne raccontava sempre, quando ero un ragazzino. Benché li conoscessi benissimo dal punto di vista astratto e teorico, io, questi posti, non li avevo ancora visti. Specialmente la cascina della famiglia della nonna: Torre Bronda.
Sono sceso dal treno a Carmagnola. Appena fuori dalla stazione, sulla piazza, mi trovo avviluppato dalla nebbia: come un fumo che ti entra nel cuore: questa nebbia ti abbraccia e ti dà il suo primo benvenuto. La mia strada va verso destra. Verso il Po.

La campagna
Camminare per questa campagna, per questi viottoli vuol davvero dire entrare in un sapore d’antico. Gli alberi accompagnano il mio viaggio, i campi sono privi di ogni coltivazione. Il riposo segna la terra, mentre il vapore della nebbia si alza dalle zolle e il fumo dei debbi segna i luoghi di una sorta di religione primordiale, in cui il respiro della terra si mescola a quello degli uomini che hanno sferzato, nei secoli, queste fertili zolle argillose color del sangue.
Per fortuna ho trovato, sepolto nella guardaroba insieme alle cose vecchie di casa nostra, un vecchio mantello di mio nonno, che mi avviluppa e mi copre facendomi assomigliare ad un fattore di un tempo, quelli che si vedono nelle fotografie antiche, con i baffi, il gilet e la catena dell’orologio ben in evidenza sul petto. Vestito così potrei sicuramente fare la mia figura anche in un quadro di fine Ottocento.
Uscire da Carmagnola ha voluto dire non sentire più né rumori di motori né voci assordanti di persone che neanche possono immaginare cosa significhi, per me, pestare questi viottoli su cui sono rimasti incisi i segni dei miei antenati, che hanno lavorato questi campi molto prima che costoro potessero anche solamente sapere che esisteva una terra chiamata Piemonte.

L’osteria
Il viottolo è entrato ben presto in un bosco. La strada l’avevo già abbandonata da parecchio, dopo l’ultima informazione presa da un uomo (vestito anche lui, che strano, al modo antico dei nostri contadini di una volta: gilet e catena dell’orologio) sull’aia di una cascina appena sul bordo della strada («Per arrivare a Po bisogna lasciare la strada e prendere il primo viottolo a destra. L’acqua si sente già parecchio prima di arrivarci. È un senso di marciume che ti prende alla gola e, insieme, una stanchezza dolorosa che però ti lascia come un piacere in tutte le ossa»). Il bosco è fitto, ma il viottolo corre dritto ed evidente in mezzo alle piante e poi, poco per volta, si fa sempre più molle la terra. Nessun senso di marciume che ti prenda alla gola, ma l’impressione che l’acqua sia vicina c’è. È come sentire la voce di tua madre che ti chiama…
È già mezzogiorno e l’appetito comincia a farsi sentire. Sono stato un po’ stupido a non prendermi qualcosa per far ballare i denti, ma comunque quel contadino mi ha anche parlato di un’osteria che c’è qui quasi in riva a Po, appena fuori della borgata della Motta. L’importante comunque adesso è trovarla…
Bello. Niente radio. Niente televisione. Un caso trovare un posto così, almeno adesso che persino le bettole più perdute non ce la fanno a non tener accesa la radio o la tele, se non addirittura tutt’e due contemporaneamente. Invece qui no. C’è un silenzio antico, di una volta. Persino le voci dei contadini sembrano avviluppate dal silenzio, così come loro sono avviluppati nei loro mantelli neri, identici a quello che ho addosso anch’io.

I contadini della borgata
«Torre Bronda? Sì, è una cascina che c’è aldilà di Po. Sarà un paio di chilometri in linea d’aria, ma bisogna stare lungo il viottolo, che è tutto una giravolta da qui fino alla riva del fiume. E poi attraversarlo, Po. Una volta c’era un ponte di legno, proprio solamente per le persone e i carri. Ma una volta. Tanti anni fa. Poi una piena lo ha portato via, e bisogna fare il giro lungo ed arrivare fino al ponte nuovo. Ma sono come minimo cinque-sei chilometri se non di più. Comunque in certe ore del giorno, ma solo nei giorni di mercato, c’è un tizio che fa passare con la barca chi arriva da Carmagnola. Basta soltanto aver pazienza ed aspettarlo. E lui arriva».
«Torre Bronda… Torre Bronda. Non è mica quella cascina dove si è ammazzato quell’uomo? Saranno vent’anni ormai, forse qualcuno di più. Non me ne ricordo tanto bene, visto che, allora quando è capitato, io ero un ragazzino. Non mi ricordo neanche bene se era Torre Bronda o Madonna delle Stelle. Ma una delle due sicuro».
«È proprio Torre Bronda. Il fattore di una volta si è impiccato ad una trave e saranno certo… già, saranno proprio vent’anni, tutt’al più trenta. Un affare di debiti. Una volta i debiti erano un affare importante, mica come adesso…»
«Era una faccenda di donne, non di soldi».
«Sia quello che sia. I tempi non sono più quelli».
Era una faccenda di donne: ha ragione l’ultimo tizio che ha parlato. Me lo ricordo bene, visto che quel fattore era il mio bisnonno e si è impiccato, mi raccontava mia madre, per la vergogna che sua moglie lo aveva sorpreso con un’altra. Altri tempi. E altri uomini. Soltanto che saranno anche più di cent’anni fa. E non venti o trenta.

Il ragazzo
«È meglio che non vada da solo in giro per questi dintorni appena il sole va giù».
«E che sarà mai… Ci sono forse dei briganti, dei banditi, qui in giro?»
«Peggio. Questa è la notte del Corso delle anime, quando i nostri morti possono ritornare a vederci. Lei forse non ci crede, visto che è un cittadino. In città avete i tram a cavalli e non credete più alle cose vecchie dei nostri antenati… Da soldato io sono stato a Milano e là c’erano già persino i tram senza cavalli…»
Faccio finta di nulla, ma certo che questi contadini anziani, come un po’ tutti gli anziani d’altronde, confondono i tempi e gli anni, e mettono nei loro discorsi, come cose di adesso, quello che magari si sono sentiti raccontare dai loro vecchi chissà quanti anni fa…
Alla fine, comunque, mi sono lasciato convincere. Mi accompagnerà suo figlio. Un ragazzone con i capelli biondi lunghi e mossi, che si è già preparato per uscire: un mantello, un cappello largo con due falde un po’ più alte e un bastone in mano («per spostare i rami degli alberi», mi ha detto).

Il barcaiolo
Arriviamo alla riva del fiume: la nebbia si è fatta sempre più fitta e adesso non ce la facciamo quasi neanche più a vedere davanti a noi il viottolo: che siamo arrivati al fiume ce lo fa capire l’odore di umido e di morte che l’acqua porta sempre con sé. Sull’acqua si sente un muoversi, un battere di remi, uno scricchiolare e uno sciacquio di onde che si dividono davanti alla punta di una barca… È qui, è arrivato… io e il ragazzo ci avviciniamo fin quasi a entrare con i piedi nell’acqua… il ragazzo alza il suo bastone per mostrarmi la barca che arriva e il suo gesto mi ricorda quello di uno che ti voglia far guardare lontano, lontano, lontano, fino ai confini del mondo…
La barca infine tocca la riva… Un vecchio barcaiolo mi fa segno di salire, senza parlare, senza niente che mi faccia capire dove dobbiamo andare; eppure io so che è qui che devo salire; il ragazzo continua a tenere alto il suo bastone per indicarmi l’infinito… una terra che non c’è, se non tra le memorie mie e del barcaiolo, che mi sembra sempre più vecchio, più bianco, più oscuro…

Dario Pasero

Nato a Torino nel 1952, laureato in Lettere Classiche presso l’Universitas Taurinensis, con una tesi sulla metrica delle commedie di Terenzio, è docente di ruolo di Italiano e Latino al liceo classico di Ivrea, oltre che giornalista pubblicista e collaboratore con la Regione Piemonte per i corsi di lingua e letteratura piemontese che si tengono in varie sedi del territorio regionale. Dai primi anni Ottanta del secolo scorso ha iniziato la sua attività di scrittore (sia in prosa che in poesia) in lingua piemontese: sue composizioni sono state pubblicate su varie riviste specializzate in Piemonte e altrove. In lingua italiana, oltre che con alcune testate giornalistiche locali, collabora con l’annuario eno-gastronomico, fondato da Mario dell’Arco, «l’Apollo buongustaio» di Roma. Al suo attivo sono i volumi di prose piemontesi Sapej (Ivrea, 1997; in collaborazione con Censin Pich) e di poesie: An sla crësta dl’ombra (Ivrea, 2002), Masche Tropié Bërgamin-e e Spa (Ivrea, 2006) e L’ombra stërmà (Catania, 2012). Alcune sue composizioni sono ospitate nel volume antologico Forme della terra–Dodici poeti canavesani (Torino, 2010) Ha altresì al suo attivo l’edizione critica delle poesie di Alfredo Nicola e del teatro di Armando Mottura (entrambe per i tipi del «Centro studi piemontesi» di Torino, rispettivamente, nel 2007 e nel 2009), la collaborazione al primo e al secondo volume di La letteratura in piemontese (2003 e 2004; antologia edita dalla Regione Piemonte; in collaborazione con Gianrenzo Clivio e Giuliano Gasca Queirazza) ed una recentissima Storia del teatro in Piemonte (in collaborazione con Fabrizio Dassano; Ivrea, 2012). Sta per uscire la sua edizione critica delle poesie piemontesi di Ignazio Isler (1699-1778). È direttore della rivista trimestrale «La Slòira» di Ivrea, che si occupa di letteratura piemontese sia antica che moderna e contemporanea, e del semestrale di varia umanità «l’Escalina».