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Però, anche lo scirocco d’autunno ha un sapore. Anche se il cielo pesa, e la luce spiove tra casupole, anche se le strade si mescolano al cielo nella stessa anima di vapore.
Grongo avanza per le vie del porto che si spalmano nel nuvolo. Può sfogarsi sui bidoni, o sui gabbiani, riuniti a frotte assordanti sui resti d’immondizie, o correre come i gatti, formare scie maculate, neri balzi di seta, oppure urlare come un gatto infuriato, innamorato, infuriato, lamentarsi come gli spiriti dei gatti nel canneto. Tutto senza sapere la ragione della propria rabbia in quel mondo nuovo.
Le chiacchiere dei pescatori sui moli non lo trattengono. Storie, e basta. Percorre veloce le storie di marinai, quei capannelli sui moli, formati senza conoscersi, senza parlare la stessa lingua. La volta che ho visto i Santi sul mare in tempesta… la volta che la barca era stracarica… che la rete era piena di pesci che quasi me l’affonda… Qualcuno raccontava, qualcuno vendeva, comprava. Come sempre. Come nel vecchio mondo. Come sempre le puttane aspettavano al varco i loro guadagni. Qualcuno buttava le lenze dai moli. Qualcuno giocava, scommetteva, al gioco delle tre carte, qualcuno giocava pur conoscendo l’imbroglio. Un amico sgomitava, è un imbroglio. L’altro alzava le spalle, mi piace lo stesso. Il dottore non mancava, si fermava a sedere su una gomena attorcigliata, irrigidita dal sale, spartiva le diagnosi e i suoi consigli per strada. Guarda, c’è grongo. Cos’è? Un fantasma?
E come un fantasma grongo passava. Lo scirocco accalorava esalando dai cassoni di cemento che stagliavano volumi nel tremore della luce. Come sempre. Però non poteva essere come sempre nel nuovo mondo, grongo aveva conosciuto le sirene del mare. Si toccava il coltello in tasca, senza un motivo.
Non si fermava, anzi passava avanti nella voglia di conoscere. Alle sue spalle recitavano, la volta che ho visto i Santi in processione tra la tempesta e i lampi, cantavano come nella festa della Vergine quando le barche illuminate seguono la Madonna a mare tra i ceri sparsi sull’acqua… Grongo sollevava uno sguardo al chiostro sopra il dirupo, io ho visto le sirene. Non sapeva la differenza. Forse erano santi le sirene, ma poco importava, forse non c’era bisogno di santi nel nuovo mondo.
Passava tra i lavoranti del porto, tra le parolacce e le bestemmie, tra sfaccendati e trafficanti, tra marinai barcollanti, per sempre sul ponte delle loro navi, l’orizzonte di mare sbiancato di scirocco ondeggiava anch’esso. Sei vivo, grongo! Dove vai, grongo?
Devo sapere, entrava tra le casupole della marina, dove lo scirocco si faceva intimo come una carezza, come il fiato di Jemira sul letto, dove lo scirocco s’intrufolava e s’annodava come un singhiozzo in gola, dove la luce diventava un’ombra tra muri, come nella stanza di Jemira. Le puttane e i loro protettori vi sfilavano come ombre. Sei ubriaco, grongo?
No, non era ubriaco. E neppure desiderava esserlo, come certe volte tra le nebbie dei moli.
Il birraio si faceva sull’uscio della bottega, non lo faceva mai. Comunque non s’azzardava oltre. Di lì poteva tenere d’occhio sua figlia, appoggiata con le spalle al muro della via.
Tu non manchi muso di tonno, e tua figlia? E’ arrivata prima di me, la mocciosa! Che strada ha fatto? Si meravigliava grongo. Non importa.
Il birraio spingeva gli occhi tondi, lo acciuffa la finanza, quello, non resta in giro per molto. Faceva cenno a Rina, entra a casa tu. Sporgeva il muso di tonno, a casa, puttana. Ma Rina già non si vedeva, scomparsa con una smorfia delle sue. Il birraio sbuffava come un pesce senza respiro, puttana come sua madre. Colpa tua, grongo. Asciugava il bicchiere sull’uscio, vi infilava il profilo di pesce per fiutare. Nel taglio d’ombra il suo capo s’era staccato dal corpo, issato su un gancio, sul banco di una pescheria: – Vuoi bere, ragazzo? – Come al solito, con una voce gorgogliante. – Ne hai, soldi? – Maledetto grongo. Le parole si formavano dalla bocca metà pesce e metà uomo. Come quella delle sirene.
Non ho soldi, ma ci pensano le sirene, ghigna grongo dentro sé.
– Hai soldi, grongo? – Soffiava il birraio.
Li avrò, pensava grongo.
– Tu e i tuoi amici ce l’avete, il denaro, tin tin che suona nella tasca, non siete come me poveretto, a lavorare di notte, e dormire di giorno per un soldo. – A gonfiare d’alcol e puzzare. Le camicie mi puzzano, e nessuno me le lava, non ho una donna, e mia figlia è una puttana. Qualcuno per giunta se la vuole portare via? Tu, grongo? Non lo permetto. Come sua madre? No. Ma chi si piglia cura di me? Svuotava il petto facendo tremare le bottiglie nel chiuso della bottega, sospirava musicale, sto qui ficcato tra mura, i soldi, ragazzo, e ti faccio bere, anche se è chiuso, ti faccio bere. Maledetto grongo. Fermati, che fretta!
Grongo stringe il coltello, continua la sua strada. E’ sotto le finestre dell’ospizio, hanno le sbarre come una prigione. I vecchi affacciano teste arruffate, grongo, grongo, sempre in giro per strada, biascicano, non hai bisogno d’un tetto, non sei vecchio come noi, sbavano, non hai bisogno d’una zuppa calda. Né tu, né quella che ti viene dietro, non la vedi? Ti viene dietro la diavoletta. Una volta… una volta… Arriva, la suora! Niente preghiere, sorella, oggi vogliamo grongo, oggi acchiappiamo grongo. Uscivano le mani dalle sbarre del finestrone, sfioravano grongo.
Sì, toccatemi, borbotta la pancia del ragazzo. Fatti toccare, grongo, i vecchi sporgevano le braccia dalle inferriate. Toccatemi, dove mi hanno toccato le sirene. La faccia del giovane gonfiava, pareva scoppiare dalla bozza che gli sormontava il capo. Quel tumore diventava una corona. Sei un re, grongo. Sono re, sono ricco, le sirene m’hanno fatto re, il ragazzo afferrava le mani dei vecchi che schioccavano tra le sue come pergamene.
La suora appariva d’un tratto fra le teste bianche. Che succede? Una voce massiccia e senza sesso come la figura. Rimetteva tutto a posto.
Grongo, non andartene, i vecchi. Si affollavano, si stringevano come galline all’ora del temporale. Via, via, tuonava la suora. Si rassegnavano, tornavano a sedersi nei cameroni dell’ospizio per giornate morte, a rannicchiarsi su memorie morte.
Grongo passa via, annusa l’ultimo odore di cipolle e patate, che esala caparbio dal ricovero, frammisto a puzzo di muffe ed escrementi. Lo annusa con una forza in più, e passa via. Ha fretta.
Per strada i bambini hanno attorniato un randagio, lanciano pietre e barattoli, non hanno altro gioco. Presto si stancano della caccia, troppo inquieti, si sparpagliano rapidamente come s’erano raccolti, a gruppetti, strepitando, spintonando, andando a costruire lenza e amo, a organizzare un’impresa, una scorreria nel sobborgo delle puttane, una ruberia al mercato, una lotta fra le immondizie, o un vagabondaggio. Grongo passa in mezzo, si sente più forte, cacciatore, ha il coltello in tasca. Rina è scomparsa. Oppure sa rendersi invisibile, lo sa fare. Andiamo, andiamo, uno spicchio di sole turbina nell’uniformità di nuvole. Vanda ci si lima le unghie, in quel sole, seduta su uno scalone, non ha parrucca in testa. Grongo non l’ha mai vista così. Sei nuda, sei un’altra, sei un’altra in quest’altro mondo.
Vanda alza uno sguardo: – Hai la testa deforme, carino. – Indica la bozza sul capo. – E anche il cervello dentro non mi pare buono. La finanza ti cerca, non lo sai? Hai i vestiti appiccicati addosso. – Che cerchi in giro? Le sirene? Ma sì, cercale, e trovale, anche per me, ride e no la donna.
– Dove sono scalogna e medusa? – Grongo lo domanda a Vanda con la voce ventriloqua, giusto domandarlo con la voce dello stomaco, giusto domandarlo a Vanda che sa sempre tutto.
La donna ride e no. – Hanno preso medusa, è in galera. Ha pianto come un bambino. –
E scalogna? E sego?
– Le senti, le navi, grongo? – I traghetti rombavano, pronti verso nuove mete, verso luoghi inesistenti. Una dolcezza strugge tra le parole della donna, diventa violenta, più della rabbia del giovane. – Partono, arrivano! – Vanda intona una cattiveria, ma quasi ce l’abbia con se stessa: – Scalogna… – Non finisce. – Sei passato dall’ospizio, t’ho visto. I vecchi e le puttane hanno un solo posto per loro, quello o il cimitero. – Anche tu e i tuoi amici, la galera o il cimitero. Anche le sirene e i pesci del mare, maledizione. – Scalogna… – Però ancora non finiva. Qualche goccia vagava nell’aria, ad aprire la bocca si acchiappava fra le labbra, bollente. Il traghetto si staccava tuonando dal molo, marciava tra lo scirocco, nel cielo solido che stagnava sul porto, s’accendeva qualche lampada tra le casine, stentava, sognava la forza, desiderava la pioggia per riflettersi nei suoi rigagnoli. Sei matto, grongo, tua madre è matta, io sono matta. Forse è meglio essere matta come tua madre. – Non so niente dei tuoi amici, inutili come te! – Ahia, impreca Vanda, s’è spezzata un’unghia.
Grongo accarezza il coltello. Vuoi dirmelo? Che ne è degli altri?
Vuoi venire con Vanda, pesce d’angelo, vuoi stare con me, ragazzo? Rina riappariva da un angolo, lesta come sempre, la faccia sporca di trucco, le ginocchia sudice da zingara. – E tu, ladra? Che fai in giro? – La ragazza risponde con una smorfia e un gestaccio, scuote il corpicino tutto ossa. Segui lui? Vuoi rubartelo? Sì, rubatelo, finché sei in tempo.
– Vanda, i fatti tuoi! – Rina modula una voce artefatta su note di donna e non di bambina. Le riesce male.
Vanda scoppia a ridere: – E’ innamorata, grongo. – Maledizione a tutti e due.
Rina esegue un altro gestaccio, salta sul gioco disegnato per terra da bambini, e sparisce di nuovo.
Scalogna, sego?
Che vuoi sapere? – Scalogna… – Inizia Vanda.
Scalogna? S’intromette uno dei travestiti come un’eco. – Chiedi a sua madre di lui. Ora sua madre è due volte vedova. –
Grongo deve sapere. Perciò fila dritto al vicolo dove c’è la casupola di scalogna, stretta tra altre. La porta sprangata chiude la salita, su per pochi scaloni di pietra. Sopra, il tettuccio si tende sbilenco. Casa di vedova. Grongo rivede per un attimo scalogna sbarrare gli occhi dietro di lui tra le onde, nel livore della maledetta notte, poi la sua testa scompariva. Batte con forza sul legno marcito. Voglio sapere. Non risponde nessuno. Batte ancora. Scalogna! Scalogna! Ancora silenzio.
Finalmente il rumore del chiavistello, e il sussulto della porta.
Scalogna.
– Che vuoi? – La vedova affaccia un naso storto a becco d’uccello, e un occhio nero come il mare di notte.
Come il mare dove s’è perso suo figlio.
Che vuoi? – Cerchi mio figlio? Lui non è tornato l’altra notte. Non è stato fortunato come te, maledetto tu e la tua razza. Hanno trovato il suo corpo i finanzieri. Galleggiava fra le stecche di sigaretta, la mattina. Se lo sono tenuti i dottori per studiarselo. –
No, no.
Hai capito?
No, no.
Escono dall’ombra tutti e due gli occhi della donna, scuri come i gorghi in cui un figlio era stato risucchiato, da cui neppure un cadavere torna. Esce un naso, il becco d’uccello. Hai capito?
Grongo s’appoggia al muro con un lamento.
Che hai, maledetto? Che vuoi? – Tu sei tornato da tua madre! –
Silenzio.
Lei lo guarda, lo stringe tutto con lo sguardo. – Aspetta. – Silenzio. – Vieni, entra. – L’uscio scricchiola aprendosi sull’unica stanza. Dietro una tenda bisunta s’intravedevano un lavandino e un fornello. – Siediti. – La seggiola traballa. Lei ha una luce malefica nell’oscuro degli occhi, è facile cadere da questa sedia, come annegare in mare. – Sei stanco, riposati. – La voce esce roca, da abissi marini, scura come gli occhi, come la voce delle sirene. – Dicono che il mare era piatto la mattina sotto il suo corpo quando l’hanno trovato, dicono che lui vi riposava, dicono che pareva disteso sul suo letto, tanto era ferma l’acqua. Pareva che il figlio mio dormiva. – Tutto il mare per riposare. Ancora lei percorre il giovane con lo sguardo, a scavarne ogni superfice di pelle.
– Dicono che il suo corpo era intatto. – come non fosse stato in acqua. Dicono che nessun pesce l’ha morso, e nessuna acqua l’ha gonfiato. Però adesso è la finanza a squartarlo. Intatto, ma la finanza l’ha preso, e i dottori lo sbranano, il figlio mio.
Scalogna? Grongo lo vede, nel cupo di quella stanza, di quella voce, affiorato dal fondo del mare, la maglia inutile ormai, zuppa, e i pesci attorno alla sua carne ma senza toccarla.
– Se lo sono tenuto. Chissà quando me lo ridanno. – Lei si passa la mano sulla fronte, la scende sul collo, sul seno, fino al ventre, alla gamba, ho bisogno di lui, lo capisci? Un marito in carcere, e un figlio senza corpo. Quante volte devo essere vedova? La mano serra la propria gamba nella gonna nera. – Vuoi mangiare? Hai fame? – Lui, mio figlio, aveva sempre fame.
Grongo scuote la testa.
Certo, non hai fame, tua madre può darti da mangiare, imboccarti ancora come un bambino, dopo la notte maledetta. – Lui aveva sempre fame. Io mi mettevo davanti al suo piatto e lo guardavo mangiare. – Boccone per boccone. Come mangiassi io. Si passava in bocca il vino alla fine, e sospirava. Vuoi mangiare ancora, hai ancora fame? La sedia scricchiola sotto il peso di grongo. Su quella sedia sedeva. E’ facile cadere da questa sedia come annegare in mare.
Suona la campana del chiostro, rimbomba nella stanzuccia. Senti? Ecco, a quest’ora, al figlio mio veniva fame, aveva sempre fame, gli guardavo ogni boccone, uno a uno, l’accompagnavo con gli occhi, glielo masticavo con questi occhi, e l’ingoiavo con lui, lo digerivo nel mio stomaco. E qui, qui, la donna passava ancora la sua mano nella veste, qui mi diventava carne e sangue. Qui, qui, si toccava la faccia, il petto, il ventre, le gambe. Carne e sangue. La sua carne e il suo sangue. La donna indica con il mento i rintocchi della campana, li conta. Li senti? – A quest’ora lui era sempre qui, seduto a mangiare. Così, come ci sei tu, davanti a me. – Ti do la maglia, mettila, gli ho detto, al figlio, quella sera, è umido di notte, e si gela a mare. Io lo so, io ho sempre freddo. Mettila, la tua maglia. Tienila addosso, come fossi io, tua madre che t’accompagna. Quasi sapevo che sarebbe rimasto in acqua a gelare. E io con lui. – Ma tu sei tornato! – Ai rintocchi sordi delle ore seguivano quelli acuti dei minuti. La senti, la campana? Come ogni sera.
La donna si scioglie d’un tratto i capelli, lunghi alla schiena, guarda, guarda, mormora contando ancora i rintocchi. Ha capelli scuri come gli occhi, come la veste, e una ciocca inaspettata bianca come la neve. Lei agita i capelli avvicinandosi a grongo, tiene quel rivolo candido tra ciocche nere, prima nascosto, guarda, glielo accosta al viso, guardalo. – M’è diventato bianco d’un tratto, la mattina dopo la notte maledetta, e ancora non sapevo nulla di lui. Me lo sono visto così allo specchio, il mattino che lui non è tornato. – Lo vedi? Senti, l’ultimo tocco della campana del chiostro. Moriva lontano senza suono. Guarda, tocca! Gli s’avvicina di più, gli riversa addosso i capelli come un velo nero, un sudario. Lei lo afferra alla nuca, le unghie entrano nella pelle. Lo attira a sé, gli spinge la faccia con forza dentro i suoi seni. – Mordi, mangia! –

Il dottore balzò in piedi, ferito senza saperne il motivo, con una forza che non credeva di possedere nelle vecchie gambe anchilosate. Basta! Ma la mano scarnita della donna si tese verso di lui e non ammetteva fuga. La vecchia scriveva sul bordo del giornale. La scrittura pencolava fitta, sbordava sulle file stampate del vecchio giornale.
– E’ morto grongo, è morto tuo figlio! – I ragazzi senza farsi vedere tirano sassi alla vecchia.
Lei non si scansa, continua a fissare un punto.
– Via, via! – Arriva il greco a disperdere i ragazzi. Scappano, è morto, è morto. – Non è vero, tuo figlio è vivo. L’ho portato io in barca sulla spiaggia. –
La vecchia resta immobile, come prima al lancio dei sassi.
L’uomo guarda un attimo, gira le spalle e s’allontana, tuo figlio m’ha chiesto se ho mai ammazzato uomini, a te l’ha mai chiesto?
La vecchia è un punto oscuro nel tramonto che fissa un altro punto oscuro.
Scompaiono i ragazzi in quel punto oscuro, scompare il greco, appare grongo. Grongo è vivo, è davanti a lei, il bozzo nudo in testa tra i capelli irsuti, il bozzo che s’è fatto nascendo a forza, quando non doveva nascere. Lui se lo tocca mentre mastica, scalogna è morto, sego è scomparso, medusa è in galera. E tu? E il nuovo mondo? Le sirene? Scalogna è carne da bisturi, lo tagliano come al macello, sono padroni anche di cadaveri, io però ho in tasca il mio coltello… la vedova, la stessa carne di suo figlio, dura come legno, come il cadavere di suo figlio sotto i coltelli… medusa ha pianto come un bambino fra le braccia dei finanzieri, un bambino svegliato malamente dal sonno… forse dopo s’è assonnato un’altra volta…oppure ha picchiato con i pugni sui muri, dovevo bruciarlo, il mondo. Parlami, vecchia, voglio sapere! Ma sua madre non si muove tra spazzature, tra resti di plastica e ferro. Eccomi, vecchia, mi vedi, sono vivo, gorgoglia la voce dall’addome, strofinandosi il bozzo della testa. Voglio accarezzarti, vecchia, le rughe, le labbra mute, con il mio coltello, voglio sentirle parlare sulla mia lama, tagliarle come scalogna, o sua madre. Il giovane avvicina una mano alle labbra della donna.
La vecchia scriveva: “I miei denti si sono aperti. Mordevo… Fino al sangue. Lui non ritirava le dita…”
Un vento sabbioso di deserto quel giorno seppelliva di sabbia le spazzature a cumuli davanti alla casupola, sabbia di terre lontane. Grongo fissava sua madre, la sua mano sanguinante. Poi subito via. Tra le viuzze delle puttane al porto. Forse Rina lo spia ancora. Ora però grongo cerca Jemira, e nient’alttro. Il volto della ragazza s’intravede nel vano della finestra, seguono le sue spalle nude, forse due seni sbocciano nel buio. Ma la mano d’un uomo ricaccia la donna nell’oscurità, negli scricchiolii d’un letto. Jemira solleva la testa verso la finestra, ma ancora la strappano via. Grongo non ha più pazienza, mena un calcio al portone, sale di corsa la scaletta. Una spallata all’uscio ed è dentro la stanzetta di Jemira. Qualcuno tiene la donna per il braccio, la strattona. Il coltello si materializza in mano a grongo. La lama scatta senza che grongo la diriga, è viva, è padrona, le lame sono i padroni. Trincia un colpo, un altro, un altro ancora. Forse colpisce lo sconosciuto, forse l’uomo urla, si tiene il fianco saltando indietro sul letto. Grongo vede soltanto Jemira, nuda, lei non si copre, sei vivo, sono tua, grongo, scappa, lasciami, no, non lasciarmi, portami via, vattene. Jemira lo spinge, lo trattiene con una carezza. Non ci sono più padroni, Jemira. Vattene, grongo, vattene.
Grongo è di nuovo sulla strada. Ancora di corsa, con in mano il suo coltello rosso di sangue. Sente Jemira parlargli alle orecchie, come una volta dallo spiraglio della finestra quando lui ha cercato di strapparle una parola, la voce. Allora la bocca della ragazza nel buio d’uno spiraglio s’era aperta in parole, una voce non un morso, lo chiamava dalla finestra, non dovresti essere qui, grongo, senti quest’aria? La senti? Non è estate, e non è inverno, grongo, è un tempo mai visto, non conosco più il tempo. E le parole di Jemira sottintendevano altre, mille parole, quest’aria è strana, è nuova, è dolorosa, è meravigliosa, è sostanza, memoria, quest’aria è un altro tempo… E grongo stava al gioco, poi sbottava, scappa da qui, vieni con me. Dove? Chiedeva ora senza parole Jemira. Andiamo via! Il rossetto di Jemira nel buio dello spiraglio s’infiammava, si spandeva sul viso, si prolungava dentro la bocca, la gola, le viscere, come una fiammata che l’oscurità della stanza non poteva spegnere, non posso, non voglio, lo voglio, lo voglio. Il tirapiedi dell’albanese usciva avvinazzato da un angolo di stamberghe. I suoi cani lo seguivano. L’uomo puzzava di vino, vi vedo, vi vedo, voi due, lo dico all’albanese. Tirava calci ai cani, impotente, vi vedo. Grongo scattava, se parli, t’ammazzo! Vi vedo. La ragazza si sporgeva dalla finestra, io, io m’uccido, e nessuno farà più niente di me. L’ubriacone spingeva qualcuno dall’ombra, un cliente delle puttane. Jemira aveva il tempo di bisbigliare al giovane, vattene, un’altra volta… Aveva il tempo di respirare ancora quell’aria né estate né inverno, non venire mai più, non voglio vedere, respirare, ricordare. Ritorno, prometteva grongo. Vi ho visto, maledizione ai cani, e alle donne, bestemmiava l’ubriacone, scalciava verso i cani, maledette bestie, no, no, non c’è nessun problema, è tua, diceva trattenendo il cliente per un braccio, maledetti cani, maledetti gli uomini, come i cani.
Grongo ha ancora il coltello in mano mentre corre. Forse c’è sangue sulla lama, forse il sangue di scalogna tagliato nella camera mortuaria, o quello dello sconosciuto sul letto di Jemira, forse il sangue suo e di Jemira.
Sul molo l’aria è satura di sabbia. Le barche sono tirate a riva per la mareggiata, coricate su un fianco, inutili come monumenti. Grongo spinge una barca in acqua. Forse l’ombra di Rina appare da un angolo.
– Ehi, tu! – Grida un uomo.
– Te la torno, la tua barca! – Il coltello rosseggia nella mano. Forse l’altro lo vede, e non replica subito. La barca è già in mare. L’uomo sbraita dalla riva, ma grongo non lo sente più, tra vento e sabbia, tra silenzi e vapori di scirocco. Grongo rema. Verso le rocce, dietro il bastione, sprofondate in anfratti. S’infila fra gli scogli affioranti, pericolosi, dove nessuna barca s’avventura. Sono lì le sirene, occhi scuri, seni bianchi, voci musicali, sussurri e sangue sui denti aguzzi che tagliano come coltelli. L’acqua si lamenta tra i remi, violata, inghiotte i remi sulla sua superfice immacolata, sussurra, sì, siamo qui, noi sirene, dove sai, la tua fortuna, la tua sfortuna, un altro mondo.
Grongo arriva trafelato fino a un anfratto. Si tuffa. Alle sirene s’arriva dall’acqua, c’è un passaggio sott’acqua per la grotta dove è rimasto a galleggiare per ore la notte andata a male. Il fiato esplode come una volta. Finché non riesce a uscire la testa fuori. E’ di nuovo nella bolla d’aria della grotta, nel suo buio assoluto, nella sua quiete assoluta, come la morte. Il giovane soffia, sbuffa, tossisce. Ecco, urta qualcosa. E’ una cassa, altre casse galleggianti. Erano ancora lì, fra le sirene, le casse del contrabbando, parte incagliate, parte quasi sommerse. Erano lì, nel mondo delle sirene. Erano lì. Ne afferra una, se la trascina coprendola con il peso del corpo. Sott’acqua. La sagoma oscura della barca. Eccola, è nera e balugina attorno come un sogno. Non ha più aria, non resiste. Riemerge a stento, vicino alla sagoma della barca. Respira, scarica nell’ombra dello scafo la cassa, si immerge ancora. Così tante volte, ansimando. Tante volte, tra le sirene. Senza fiato. Finché non riempie la barca. Allora grongo si stende esausto, il fiato mozzo per ascoltare un canto, se si sente, tra l’aria e il mare.

 

Gabbiani-Porto-Recanati

 

Mario Condorelli

E' nato a Catania nel 1977. Laureatosi in medicina lavora con responsabilità dirigenziali nel settore della Sanità. Ha esordito con la narrativa nel 2000 e ha quindi pubblicato romanzi molto apprezzati dalla critica.