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(Parte III – seguito a Ceronetti, luce in tenebris e a L’arte povera di Guido Ceronetti)


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Dalla questione ambientale, trascurata, ignorata, e dovrebbe invece essere oggi la questione politica per eccellenza, alla nostra ritrosia o inadeguatezza a cercare nelle spiegazioni visionarie la verità sul secolo scorso. Secolo della passività, dice Guido Ceronetti, dell’obbedienza più terrorizzata e cieca. Le Horla, lo spirito dell’Ottocento (leggi l’omonimo racconto di Maupassant, pietra miliare della narrativa dell’orrore): la sua mano c’è nella Prima guerra mondiale. La stessa mano nella creazione della bomba atomica e nel fatto che, una volta inventata, non viene ancora responsabilmente “disinventata”. In una prospettiva morale, Ceronetti ritiene un covo d’assassini la sede dei geniali ragazzi di via Panisperna, dove Fermi e gli altri lavoravano sui neutroni. E la città murata di Los Alamos come la sua gigantesca proiezione. Quanto a Majorana, il più geniale di tutti, lo riteneva “una cometa dell’intelligenza che volle perdersi nella notte… Dove fosse fuggito non è un problema filosofico: il luogo non c’entra quando si entra, da vivi, in Nessun Luogo. Ed era il Nessun Luogo (vera utopia) ad attrarlo, patria ignota elettiva”. E forse in questo Nessun Luogo può riconoscersi l’Altrove utopico di Ceronetti di cui tutti dovremmo andare alla ricerca, felici di riuscire a trovarlo.

Un Altrove senza il nucleare o altre industrie inquinanti. Senza turismo di massa. Senza quella legione di mostri scatenati che è il nostro stress quotidiano. E dove si consideri il sonno come il meglio della vita, “un pezzettino di nirvana”. Più il sonno è profondo, più si è nel sonno incoscienti e più siamo felici. Chi non dorme la notte è meno difeso di giorno, e quindi più facilmente preda del male. Un Altrove di cose scomparse. Di suonatori d’organo di Barberia o di contastorie per le strade delle città. (Quanto a noi siciliani mancano i vecchi cuntastorie nelle piazze!) E non di cinema, “addormentatore di menti” prima che fosse la televisione a sostituirlo in questo compito, ma dei balli delle ricorrenze agricole, del teatro di strada che tanto ama e tanto si è sforzato di riproporre.

Ma da dove viene l’Organo di Barberia, strumento musicale povero a rullo o a cartone o di legno del suo Altrove utopico, quale la sua leggendaria origine? È stato un italiano di nome Barberi, Giovanni Barberi a inventarlo nel 1702? Viene il suo nome dalla regione mediterranea dell’Africa dove pure ne è conosciuto il suono? O semplicemente da barbaros, parola greca adoperata dai musicofili del tempo dalle orecchie raffinate e abituate ad altri strumenti, per definire in senso dispregiativo la musica popolare e di strada prodotta da questo scatolone a manovella e suonato da girovaghi di paesi per sopravvivere?

Il contastorie Gianni Gili dà il suo utile contributo alla ricerca delle origini dello strano nome di questo strumento citando un prezioso racconto di Antoine Lésetout del 1826. In cui un girovago inglese (“grande, barbuto”, di un’età tra i sessanta e i settant’anni) dice all’ospite straniero incontrato in una locanda e invitato al suo tavolo di essere lui, che si chiama John Burberrys, il “creatore” dello strumento che ha accanto. Dice, di fronte a una pinta di birra, che l’italiano cui è stata attribuita l’invenzione era proprietario di una fabbrica d’impermeabili e non aveva nulla a che a fare con l’Orgue de Barbarie. E avvalora questa sua infinita certezza con un fatto davvero singolare cui aveva assistito. Quello di un riccio attratto dal suono di un’arpa Érard nel giardino di una casa del New Hampshire. L’animale si avvicina alla base dello strumento e quando la musica cessa ne scala le corde per raggiungere l’eucalipto che sta in cima di cui è evidentemente attratto. Le corde, sfregate dai suoi aculei, producono intanto un’indefinibile melodia. Di qui nasce l’idea di Burberrys: un cilindro con dei chiodi, che sostituisca il riccio, facendolo girare in un sistema che produce musica. Prima di caricarselo sulle spalle e di uscire dalla locanda, apre lo scatolone e mostra al forestiero la sua idea realizzata.

Ma Altrove è per Ceronetti, credo, anche il mondo visionario del suo romanzo In un amore felice. L’amore di una strana coppia anagraficamente agli antipodi. Lui, Aris, ha settantacinque anni ed è stato fotoreporter di guerra; lei, Ada, è una giovane veggente “con un passato di sofferenza e di colpa” – scrive Lorenzo Mondo nella recensione. Una coppia unita dalla passione per gli ufo e per i fenomeni paranormali. Ti ritrovi, come lettore, catapultato nel mondo degli alieni, negli “spazi insolubili” di galassie lontane: tra angeli decaduti nei quali sopravvivono concupiscenze umane. “L’ufologia/ è nata dal tronco fulminato della morte di Dio e dal rinnegamento degli angeli” chiarisce (o prova a chiarire) Ceronetti nell’introduzione. Poteri extraterrestri e reminiscenze bibliche s’intrecciano in questo romanzo nato dal bisogno di Trascendenza del suo autore. E dove il carro d’Elia del racconto della Bibbia che sale al cielo in una luce di fuoco è visto come anticipazione degli alieni e misteriosi dischi volanti della nostra realtà o della nostra illusione/immaginazione.

Altrove è per Ceronetti sinonimo di Assoluto. I poeti che più ha amato hanno cercato l’Assoluto. Bloy, escluso dalla comunità letteraria per il suo antirazionalismo, l’ha cercato e trovato nella devozione alla chiesa cattolica. Il sensibilissimo e malinconico Forgue nella passione per il pianoforte e per la poesia. Antonin Artaud nel “teatro della crudeltà”. Inteso come irruzione – estrema e violenta – nella vita del pubblico. Nel suo coinvolgimento per scuoterlo dal torpore quotidiano e fare in modo che insieme, attori e spettatori, possano ribellarsi alla dittatura del testo. Arthur Rimbaud infine ha cercato l’Assoluto dentro di sé, giovanissimo, a diciassette anni, e poi nel contatto disperato con il mondo, viaggiando da Parigi ad Aden, dall’Europa all’Africa da dove torna con una gamba mortalmente offesa. Prima di assistere toccandola con mano, con altrettanta vana disperazione, alla fine prematura della sua esistenza.

Io è un altro scrive Rimbaud nella Lettera al Veggente. Ed è la frase che cambia la natura del poeta. La natura della poesia, rendendola oggettiva. Freud e Jung non sono ancora apparsi sulla scena del mondo, Pirandello (e il suo teatro) ancora lontano dalla meritata affermazione, e già questo giovane poeta inseguito dai fantasmi del “maledettismo”, lettore di Baudelaire e di Poe, scinde la personalità e la psiche umana. Io è un altro, dice. Tanti i significati di questa frase. Tante le sue interpretazioni. Una può essere questa. Dentro di me, dentro di noi in questo momento di rottura del mondo, del suo fragile equilibrio, vive qualcuno (o qualcosa: come appunto l’oggettività della poesia in questo caso) che non è uguale a quel che di me appare fuori, a quel che di noi all’esterno si vede. Si vede!