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© A. Tommasi, Gli emigranti, 1895

Il vincere quella battaglia le aveva messo le ali ai piedi. Affittò a Saint Marcelin un bilocale, lontano dalla sdrega chilometri e chilometri, nel villaggio di Rovon. Antonio ne era felice una sera le disse:
“Figlia mia, con quella mai devi abbassare le corna perché te l’appiccica dietro. Ti ci devi mettere a tu per tu. Se gliene fai passare una quella si mette a cavallo.”
Mentre la mattina delle nozze Marinella le aveva intimato:
“ Te lo sei scelto? No, è per uscirtene da casa mia che segui un semplice operaio che vernicia telai a Roy Merlin, a questo punto se ti lasci con lui non ti permettere di venire a bussare alla mia porta. Andrai a chiedere pane altrove. Stampatelo in testa.”
“Che mi dici le stesse parole incolonnate che ti disse nonna Carolina? Ricordati che io mi sono sposata col velo bianco e neanche prena. E ti stragiuro che morirò, stecchita dalla fame se è il caso, come una cane su un marciapiede ma non avrai la soddisfazione che vengo a chiederti aiuto o inginocchiarmi davanti a te”.
Antonio invece la rincuorava:
“Lotta, non diventare vittima, non permettere che ti critica, non ti curvare a testa bassa davanti la malvagia. Non ti preoccupare che se mangio io mangi tu, devi stare spensierata. Io so come chiudere la bocca a tua madre. Mi piace questa casa e anche i mobili sono da vedere con quattro occhi, ti dico –a sfardari e maggiurari-. Tu le devi dire poche cose, devi lasciarla solo supponère. Questa è la vera vendetta. Devi fare la coniglietta e aggiustare la testa di tuo marito che è malato di mammite acuta, come una volpe, appena mette le zampe sul tuo corpo. Ascolta a tuo padre e cerca di zanniare di meno e di cusciuliare solo per andare a fare la spesa.”
Sciummula dormiva di notte quando poteva, le bastavano poche ore di sonno perché la notte o parlava o si dava a fare col marito:
“Vedi che pacchia e come siamo felici? Una madre che cerca il pelo nell’uovo. Per stare col figlio, si deve fare nchiudere perché è una sfascia famiglie. Meno ci vediamo meglio stiamo. Facciamo tutto di comune accordo e non ci pizzichiamo mai. Io ho bisogno di pensarti tutto mio perché dalle suore avevo solo il mangiare, da mia madre neanche quello, da quella sfricchia fava di mia madre avevo che lei si pavoneggiava, impupava ed io smerdavo. Ora che abbiamo due stipendi ci dobbiamo sfardare la vita. Devo recuperare quello che mi è mancato. Mia madre mi diede patate per corredo, lo stesso vale per te, ma noi dobbiamo sfoggiare farle morire d’invidia.”
Nuccio ascoltava in silenzio e senza dissenso al punto da farla inquietare. Si mise in testa di controllare se il marito era sincero con lei. Prese l’autobus e si piantonò in una traversa nei paraggi della sdrega. Lo vide posteggiare la macchina e salire da sua madre:
“ Vigliacco ecco perché lui si porta la macchina e mi lascia a piedi per non essere seguito. Che disgraziato”
Decise di salirci anche lei e trovarli in fragrante. Udì il loro parlare concitato ed alta voce.
“Oh Ma’ statti muta, ti devi rassegnare, ormai ho una famiglia”.
“Ma quale famiglia se sono passati due mesi e non è capace di restare incinta. Che figura ci fai coi vicini? Tu hai perso la dignità. Hai dimenticato chi ti ha fatto e tutti i sacrifici che ha affrontato”.
“Ma quella ormai è la vita mia”
“-Vita mia- le dici? Ma non hai capito che è ladia, ludia, lagnusa, licca, liafanti, lupunaria, locca, liscia? E in più puzza perché è pelo rosso. Ma perdesti veramente i sentimenti?”
“No Mà, li trovai. Vivo come un re, me la pascìu dalla mattina alla sera. Non è locca, è un pezzo di pane”.
“Ricordati che prima viene la madre, da dove uscisti, e poi la moglie.”
“ Certo che ti rispetto, anche lei deve partire e per questo ci vuole mente serena. Tu non me lo permetti…”
La sdrega si fece venire il tremore, allungò i piedi per terra, si sventolava col fazzoletto, mentre col pollice sembrava volersi scippare i denti davanti per respirare meglio:
“Moru, moru mi stai affettando il cuore”.
Nuccio andò via come un disperato ma a casa fu peggio.
Sciummula era tanto alterata che non riusciva a memorizzare le azioni compiute prima. Aveva gli oggetti davanti ma non riusciva a vederli. Stava con le ali cadute:
“Ehi scardillicchio, ora mi allacciuno io. Ti ricordo che le cose di Mafia non si vedono né si registrano per la televisione! Che si devono andare a scovare pena la morte. Me lo insegnava mio nonno Calì. Se fino a oggi il mangiare ti è uscito dal naso da oggi ti uscirà dagli occhi. Da oggi la macchina è mia e tu te la fai a piedi o con l’autobua. Così finisci di svolazzare. Hai capelli come un corvo, di questo colore è la tua coscienza.”
“Che figura ci faccio fuori?”
“Di quello che va ogni giorno a vedere sua madre, di quello che non ha parola, che rifiuta le regole. Che vi siete messi nella fottuta testa che io sono un oggetto che resta dove lo posate? Io ho i piduzzi camminanti. Sei fuso. Cosa vuol dire moglie? Io ho gli occhi ladri e rubo il mestiere anche del disonorato, quando ci vuole.”
“Hai ragione ma la mamma è mamma, l’amore di mamma è superiore, dopo viene la moglie. La mia è anziana oggi è quasi svenuta, era stracangiata quando le dissi che ci andavo due volte a settimana.”
“Vedi come ci puntuliamo? Cornuto chi non ritorna! Mi porti più diruèpo che aiuto. Tutto questo nel campo di battaglia ci può stare ma non basta. Perciò me ne ritorno a Corconiana. Mi vado a fare quattro siringate di buona salute”.
“Perché le suore ti impararono a parlare in italiano. Forse per questo non ci capiamo bene, perché io non ho scuola”. Sciummula cominciò a valzeriare di mente, una ne faceva ed una ne pensava. Non grucavano più.
“Abbiamo finito di fare i piccioni, di sbatterti ogni mattina un uovo alla marsala perché le anziane me lo consigliavano se no diventavi pazzo dopo tanta ginnastica a letto. Per me hai steso già i piedi. Ora me ne torno al sole, della Sicilia. A Corconiana”.
“Chiamala Canicattì!”
“Mi vado a stendere a cosce larghe così mi vaporeggia. Spalanco le finestre e il venticello mi accarezza. E tu non sentirai neanche l’odore. Non sopporto più questo sole francese timido e neanche questo cielo che piange sempre.
In questa casa nessuno deve essere superiore a me perché io accetto solo la volontà di Dio.”
Di Santa Sciummula si fatta diavola.

© A. Tommasi, Gli emigranti, 1895

Rosa Pedalino

Nata a Leonforte in provincia di Enna,dove ha trascorso l’adolescenza, si è trasferita a Parigi, ha insegnato alla Sorbona e ha, per anni, mantenuto rapporti di coordinamento con gli emigrati italiani. Adesso vive a Grenoble. Tra le sue pubblicazioni creative un libro di racconti Decamerone siciliano (Prova d’Autore 1989), e i recenti Agli àgli m'incipollo e Di me mi prendo e di me mi lascio (Prova d'Autore, 2011).