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Sigismondo viveva d’illusioni, ma non di quelle che attanagliano il maggior numero di abitanti della sua piccola città di provincia, come quella di vincere al lotto, che la squadra del cuore batta le avversarie, che incontri l’anima gemella o che trovi per strada una banconota di una cifra ragguardevole: le sue illusioni non avevano niente di concreto, legate a un possesso o una conquista, ma erano mere proiezioni mentali, inseguimenti fittizi, aspirazioni del tutto irrealizzabili.
Sigismondo già dal primo mattino, quando la luce cancellava le tenebre dei fantasmi, sognava una parola che gli potesse far sopportare il tedio della giornata, trasportare la mente oltre la banalità imperante in quei posti desolanti: la prima che gli veniva in mente era la più scontata, ma anche forse la più urgente “Amore”.
Subito però la cancellava, perché troppo ingannevole: pensava ai mille abusi che si compivano ogni giorno con l’alibi del suo nome, ai tranelli che nascondeva con falsi sorrisi e inutili sbaciucchiamenti, a come in ogni momento veniva usata a sproposito per vendere pannolini e detersivi, per avvelenare la vita di inerti fanciulle e attempati vecchietti con l’illusione di un bacio o una carezza.
Allora con un’onda di speranze gli venne in mente “Verità”, ma subito si rese conto che anche questa non andava bene, pensando a quanti imbrogli si compivano ogni giorno con quella parola tanto altisonante: a malincuore doveva costatare che tutto era falso, dalle marche contraffatte dei suoi calzini alle mutande made in Cina che indossava, dalle parole che soffittava la presentatrice alla tivù a quelle stampate a carattere cubitali sui giornali, dai proclami dei vari presidenti al prezzo gonfiato della benzina, dai sorrisi della sua fruttivendola alle prediche del parroco per il giorno della questua.
Era tutta una menzogna per dimostrare di essere quello che non si è, per sentirsi sempre superiori agli altri e quindi avere il diritto di dettare legge su ogni cosa: dal colore delle scarpe al taglio dei capelli, per non parlare poi dei gilet e del debito portamento all’occorrenza di una cerimonia di premiazione di se stessi.
Allora pensò di rifugiarsi nel pensiero di “Pace”, ma subito si ricordò che il mondo era continuamente tormentato da guerre, con stati che invadevano gli altri che a loro volta rispondevano con massacri indiscriminati di gente inerme, per non parlare poi dei tormenti che devastavano il suo cuore o del vicino per un progetto non realizzato o per una parola di troppo sfuggita nella concitazione: tutti si guardavano in cagnesco per una presunta offesa o per un sorpasso in auto, perché non cedevano il posto al banchetto o nella fila del supermercato.
C’era sempre qualcuno che aveva qualcosa da rivendicare perché non gli andava mai bene niente, perché voleva di più o perché era troppo quello degli altri: dappertutto penzolavano cuori infranti, bistrattati da un amante o dal vicino di casa e avevano tutti un cane o un gatto per consolarsi, per raccontare a lui in gran segreto le loro disavventure.
Allora per sistemare le cose pensò che ci volesse un po’ di “Giustizia”, questo avrebbe riequilibrato le sorti dell’umanità: c’era chi la gridava a gran voce, come la liberazione di tutti i mali …
Presto però Sigismondo dovette dirsi che la giustizia era vilipesa, che tutti la invocavano, ma poi la tiravano per la giacca per i propri interessi: la giustizia era quella che andava bene a loro, fatta per coprire le loro malefatte, dichiarandosi sempre giudici sopra le parti.
Così il poveretto aveva sempre torto, il prepotente stava dalla parte del giusto: le leggi funzionavano per garantire l’impunità, l’arbitrio, le belle parolone dei giudici che sentenziavano e il povero diavolo si trovava sempre nel sacco, a dover pagare.
Doveva però esserci una parola degna di rispetto, che riscattasse i miseri e ridesse coraggio alle poche anime buone che ancora sopravvivono in qualche parte del mondo: non poteva essere tutto così disastroso, ci doveva essere un punta d’appiglio per le speranze del domani, questo si diceva Sigismondo che non voleva cedere allo scoramento.
Allora gli venne in mento il più nobile e sublime sentimento: la “pietà” che avrebbe potuto redimere anche i peccatori più incalliti, i testardi inorgogliti della loro vanità.
Si rese però subito conto che la “Pietà” era bandita dalla nostra società: non avevano avuto pietà le sue amanti che lo avevano cacciato alla prima difficoltà, gli amici che erano fuggiti al repentino disaccordo, i parenti che lo avevano abbandonato alle sue disgrazie, i conoscenti che se l’erano data a gambe levate di fronte ai suoi tracolli.
Stava per cancellare anche questa parola, quando si accorse che quella era proprio la parola giusta: il buon Dio non lo avrebbe mai abbandonato, gli avrebbe concesso tutta la pietà di cui necessitava, la sua pietà era infinita e in qualche angolo dell’universo ce n’era sempre in abbondanza per lui che ne aveva tanto bisogno…