Mario Lunetta (Roma, 23 novembre 1934 – 6 luglio 2017)

Liber veritatis

Quando, fra qualche tempo, finite le mistificazioni mediatiche, si dovrà rivedere la vicenda della letteratura italiana del secondo Novecento, bisognerà assegnare un posto preminente a Mario Lunetta: alla sua nobile distinzione stilistica, a quella che lui chiama la sua “scrittura in guerra” e “senza perdono”, alla sua chiarezza. Ora, nell’opera davvero sterminata di poesia, narrativa, saggistica e drammaturgica (oltre cinquanta volumi) d’uno tra i più completi talenti della letteratura italiana, non appare minore l’armonico e mai paludato Liberveritatis (2007), zibaldone di “appunti, gags, aforismi” e di “pensieri, ricordi, capricci, invettive, immagini, sogni, illusioni, delusioni”: leggibile, altresì – parole dell’autore –, come una sorta di “testamento morale” (“Ciò che davvero conta, alla fine, è la moralità nel proprio mestiere”).
Testamento e lucida testimonianza, brillante libro di pensiero, calepino di prose morali cum ironia, faville autobiografiche, motti arguti e saggi brevi d’un illuminista che coniuga estetica ed etica; e, critico della “stupidità della storia” – cioè, come il ‘suo’ Leopardi, avverso alla retorica delle “magnifiche sorti e progressive” –, non elude certe insorgenze romantiche sospese fra disillusa utopia e opzioni nichiliste, storia e cronaca, fervido impegno letterario e critica radicale del sistema.

L’odierna letteratura? Qualcosa – afferma Lunetta, persuaso che “un essere umano è, alla fine, soprattutto la propria lingua” – di cui si è perduta ogni specifica nozione per fare posto a un senso comune divenuto quello stesso delle indifferenziate dinamiche del mercato spettacolarizzato (“Lo spettacolo ha ucciso la testualità” e “gli italiani, ormai, pensano televisivo”).
E la pittura astratta? Misera pratica di falsi artisti “per cercare di non fare più troppe brutte figure”. Peraltro, l’arte figurativa odierna “ha progressivamente perduto il suo alone demonico e sovversivo, per cristallizzarsi nei tratti di una nuova normalità” da salotto e arredamento.
Il terrorismo, culminato nella distruzione delle Twin Towers di Manhattan e sempre più diffuso nel mondo? Un inatteso ingrediente nel “frullatore della globalizzazione” e una globalizzazione della guerra (frattanto, “una sola cosa non è globalizzata: la ricchezza”). Quanto all’Italia, sarà bene non dimenticare mai che qui “sono nati il fascismo, l’infallibilità del Papa e il berlusconismo […] fascistoide con trucco ‘liberale’”.
Mentre la “Repubblica Italiana fondata sul lavoro (nero)”, col recente “fallimento civile e culturale della Sinistra al governo (o supposta tale)”, si è vieppiù tradotta nella “versione aggiornata dell’eterno Stato della Chiesa […]. La vera anomalia italiana rispetto al resto dell’Europa è di avere ospitato per duemila anni […] una religione fatta Stato: una centrifuga che ha risucchiato tutte le energie critiche di un popolo”. Certo un popolo incapace di ribellione e “che ha sempre obbedito”, mai affrancato dall’ingiustizia, dall’opportunismo, dalla ciurmeria legalizzata, da un’ilare, cinica e in fondo volgare perdita di speranza.
“Sono un anziano giovanotto del secolo scorso” sembra infine dolersi lo scrittore. “Sono stato giovane […] e non me ne sono neppure accorto”. Ma ciò per il semplice motivo che, come a nessuno degli scrittori della sua generazione, a questo vivo e vitale specialista di lettere è toccato, per genialità, operosità e intelligenza del cuore, di restare invidiabilmente giovane.

 

 

 

Stefano Lanuzza

Storico della letteratura, (Dante e gli altri, Stampa Alternativa, 2001) studioso di chiara fama, è una figura singolare di intellettuale e artista, svolge anche attività di pittore e grafico, ha pubblicato libri di poesia e un romanzo sperimentale. Le sue ricerche continuano a essere rivolte agli “esclusi”, e alle riscoperte e valorizzazioni.