Al momento stai visualizzando Pagine da Israele (23/23). Ultima puntata: Il mondo che verrà.

 
– E tu vorresti andare in un paese dove ti trattano così prima di entrare?
Questa frase non me la dimenticherò mai.
Non me l’aveva detta una persona che conoscevo.
Me l’aveva detta un poliziotto italiano in divisa.
Fu allora che mi guardai intorno.
Fu allora che presi coscienza.
Dov’ero? Roma. Aeroporto di Termini.
Destinazione? Tel Aviv. Israele.
Dove mi trovavo? In una stanza blindata.
Scortato.
Semi spogliato.
Interrogato.
Perquisito.
Controinterrogato.
Come un criminale.
Perché?
Perché?!

Posso sintetizzare la loro tecnica.
È la tecnica dei peggiori/migliori servizi di security mondiali.
È una prassi che utilizzeranno sempre più.
È la fine del mondo libero.
È il mondo che verrà.
Per tutti coloro che continueranno a pensare.
Per tutti coloro che continueranno a pensare diversamente.
Per tutti coloro che continueranno a volere un mondo libero.
Eccovene l’assaggio.
Testato e ritestato.

Ti trovi in fila al check-in.
Per partire in Israele devi fare il check-in non un’ora prima ma tre ore prima.
Perché? Per la sicurezza di tutti. Per controllare tutto e tutti.
Sei in fila lungo la serpentina. Intorno a te trovi sempre coppie, famiglie, uomini d’affari.
Tu sei un viaggiatore solo. Un viaggiatore solo è strano, atipico.
Mentre tu sei un viaggiatore solo c’è un terminale che ha già incrociato i tuoi dati e nella lista degli imbarchi il tuo nome è sottolineato. È sottolineato perché non rientri negli standard di sicurezza.
ATTENZIONE PERICOLO.
Mentre sei in fila alla serpentina passano delle graziose hostess di terra.
Fingono sorrisi.
Si avvicinano alla gente nella serpentina e chiedono cortesi in quanti sono a partire.
Hanno dei sorrisi tesi. Tirati. Perché non sono sorrisi.
Stanno fingendo che sia tutto normale.
Hanno il compito di individuare e prendere in disparte alcuni.
Si avvicinano a te: passaporto e carta d’imbarco prego – ti chiedono col sorriso aspro.
Tu glieli dai. Li guardano. Sì: risulti come uno da “vagliare”.
Loro aprono il cordone della serpentina.
Si avvicini – ti dicono come se tu avessi vinto un premio.
Il “si avvicini” significa metterti in una postazione in piedi, un parlatoio visibile a tutti, dove ti fanno “qualche domanda” e poi ti lasciano andare.
Ti fanno le solite domande idiote che “per la sicurezza di tutti ti devono fare”:
Hai bombe? Hai dato la tua valigia ad uno sconosciuto? Hai armi?
Sono domande di per sé offensive per l’intelligenza comune ma noi ormai le dobbiamo accettare perché sono utili per fare innervosire il plausibile terrorista.
Però tu sei diverso.
Quando hanno finito le domande inutili scompaiono qualche attimo.
Tornano con un foglio.
Sono così fintamente sbadati da farti vedere che nel foglio c’è una lista con proprio il tuo nome.
Sottolineato con l’evidenziatore. È una cosa che non immaginavi.
Cosa ho fatto? – ti viene da chiederti.
Quella hostess gentile col sorriso tirato, quando legge il tuo nome si raggela ancora di più.
Ha la faccia di una fottuta maestra imbarazzata dalla tua ignoranza.
Ha la faccia angosciata dalla tua presenza.
Una tecnica sopraffina per farti sentire sbagliato.
Ti fa domande nervose.
La hostess è nervosa.
Fa finta che vada tutto bene.
Tu pensi che sia finito lì. Ma è appena cominciato.
Dopo qualche domanda dove nemmeno ascolta le tue risposte, ti dice di aspettare.
La sensazione è come se tu avessi commesso uno sbaglio.
Passa qualche decina di secondi ed arriva sempre un uomo.
Tendenzialmente è il capo della Security.
È quasi sempre un uomo risoluto, sicuro di sé, energico, scaltro.
Questo cambio di guardia ha di per sé qualcosa di sinistro.
Ti fa sentire speciale. Sì, speciale come un rifiuto tossico.
Quell’uomo è esattamente lì per farti innervosire.
È lì per provocarti.
Domande, facce di derisione, domande a trabocchetto, domande incalzanti.
Tu sei in viaggio dal giorno prima. Hai dormito male in un albergo anonimo. Ti sei svegliato alle 4 e sei andato al check-in. Vuoi solo partire.
Ma sei sotto l’artiglieria di domande a raffica pesante.
Ti dispiace se parlo inglese? – chiedono a quel punto per metterti in soggezione
Ma cosa ci fai in Israele? – chiedono come per dire che è meglio se te ne torni.
Cosa facevi a Bologna?
Puoi provare quello che hai detto? – era il ritornello nauseante.
Quanto hai vissuto a Bologna?
Puoi provare quello che hai detto?
Ma cosa fai nella vita?
Puoi provare quello che hai detto?
Ma dov’eri fino ad oggi?
Puoi provare quello che hai detto?
Cosa hai studiato?
Puoi provare quello che hai detto?
In che università hai studiato?
Puoi provare quello che hai detto?
Chi era il tuo professore?
Puoi provare quello che hai detto?
Che voto hai preso alla laurea?
Puoi provare quello che hai detto?
Ma perché vuoi andare in un Kibbutz?
Puoi provare quello che hai detto?
Ma perché hai questa passione del Kibbutz?
Puoi provare quello che hai detto?
Ma cosa hai letto sul popolo ebraico? Perché sei interessato?
Puoi provare quello che hai detto?
Elencami qualche libro che hai letto.
Puoi provare quello che hai detto?
Ma la tua tesi di laurea su cos’era?
Puoi provare quello che hai detto?
Delle sei volte che ho passato questo oltraggio all’intelligenza umana ho una piccola collezione delle loro osservazioni provocatorie.
Tra le peggiori una è stata nel 2010 – dopo aver spiegato nel dettaglio (ti costringono) cosa facevo in Africa – con una smorfia e imitando la mia voce (come si fa quando ci sta antipatico qualcuno) il maschio alfa mi aveva deriso ripetendo questa frase:
– E come credevi “di poter fermare la povertà attraverso progetti di sviluppo rurale”?
Un’altra volta – dato che partivo con un imprenditore ma non con lo stesso volo – mi avevano chiesto se potevo provare con chi e perché partivo. Mi avevano indirettamente costretto a chiamare quell’imprenditore e, mentre cercavo il suo numero in rubrica, il capo security si era piegato per guardare esattamente cosa digitavo e cosa scrivevo nella mia rubrica.
Loro possono tutto. Perché tu sei sbagliato. Perché tu sei diverso dagli altri.
Io non sapevo nulla di questa deriva disumana, che poi ho scoperto che si estende in tutto il mondo, non solo nei paesi in guerra, ma negli aeroporti, nelle strade, nelle banche, nei computers di sempre più paesi apparentemente in pace.
Io non sapevo nulla di tutto questo.
Ma loro erano lì a provocarmi col diritto di chiedermi qualsiasi cosa in nome della sicurezza.
Era palese il ricatto: se ti innervosisci o se ti incazzi non ti facciamo partire.
La cosa peggiore che io potessi fare in quel caso l’ho fatta.
L’ho fatta la prima volta che sono finito nelle loro grinfie.
Perché io non sapevo nulla di questi sistemi di security, non sapevo che il mondo era già andato a puttane.
E perciò ho reagito come un essere umano:
– Dai basta ma che ansia con ste domande!? Ma che cosa ho fatto!? – gli avevo detto giustamente con indignazione.
Mai gliel’avessi detto.
– Perché ti preoccupi?!
– Hai qualcosa da nascondere?!
– Perché?!
– Perché?!
– Perché?? – continuavano a chiedere.
Allora ho capito.
Ho capito che con la scusa della sicurezza possono avere tutto da noi.
In nome della sicurezza di tutti.
Due ore di interrogatorio sfiancante. Di botta e risposta aspri.
In nome della sicurezza di tutti.
Ora arrivava una hostess sorridente che faceva “il poliziotto buono” con domande tenui.
In nome della sicurezza di tutti.
Ora tornava il capo della Security che faceva “il poliziotto cattivo” con domande provocatorie.
In nome della sicurezza di tutti.
Poi la perquisizione fisica.
In nome della sicurezza di tutti.
Lo svuotamento della valigia.
In nome della sicurezza di tutti.
Il loro diritto a chiederti cosa me ne facessi di ogni pensiero esternato.
In nome della sicurezza di tutti.
Il loro diritto di chiederti cosa me ne facessi di ogni oggetto portato.
In nome della sicurezza di tutti.
Togliti le scarpe.
In nome della sicurezza di tutti.
Ti sequestriamo la valigia.
In nome della sicurezza di tutti.
Ti sequestriamo il computer e ti controlliamo i files che hai dentro.
In nome della sicurezza di tutti.
La tua valigia ti verrà restituita solo quando avremo la sicurezza che tu andrai davvero in un Kibbutz.
In nome della sicurezza di tutti.
Fu allora che i due poliziotti italiani mi dissero quella frase:
– Ma tu vuoi andare in un paese dove ti trattano così?
Israele. Ma quello non era Israele. È il pianeta che sta diventando così.
In nome della sicurezza di tutti.
Un giorno entreranno nei vostri computer e nelle vostre case. Senza permesso.
E voi sarete felici: perché è in nome della sicurezza di tutti.
Vi sembra più sicuro il mondo da quando sono intervenuti i “Paladini della sicurezza”? A me sembra il contrario.
Questo esempio é nella sua leggerezza emblematico per capire quanto sia vicino il problema.
Quello che sto raccontando lo dovete leggere con un respiro più ampio.
É un problema di umiliazione istituzionalizzata.
Alla fine dell’interrogatorio serrato e del sequestro di tutti gli oggetti io non ho fatto la fila come gli altri.
Perché non sei come gli altri – ti fanno capire.
Non sono potuto entrare al Duty Free come gli altri.
Perché non sei come gli altri.
Vedevo gli altri sorridenti con le bustine da shopping mentre io ero scortato da guardie.
Perché non sei come gli altri.
Non sono entrato in aereo come gli altri.
Perché non sei come gli altri.
Mi hanno scortato fin dentro l’aereo due guardie in uniforme.
Perché non sei come gli altri.
Ero pieno di adesivi con bollini rossi, un rosso fuoco con punti esclamativi, li avevo ovunque: dal passaporto alla valigia.
Perché non sei come gli altri.
Tutti ti guardano.
Perché non sei come gli altri.
Tutti fanno finta di non vederti più.
Perché non sei come gli altri.
Non sei come gli altri: sei peggio degli altri – è quello che ti dicono.
Pensate quando ve lo faranno nelle vostre case, a scuola, in ufficio.
Gli psicologi lo chiamano “procedura di labelling”: le istituzioni ti etichettano come diverso e tu diventi diverso ci diventi perché a quel punto la gente ti tratta diversamente e tu ti autoescludi dalla società.
Più ti escludi più odi la società.
Non é un’ipotesi, é statistica scientifica.
In America e Inghilterra é già da tempo così soprattutto nelle fasce povere giovanili.

Infine scortato dalle guardie fin dentro l’aereo, partii.
In nome della sicurezza di tutti durante il viaggio mi svegliarono bruscamente per darmi un questionario.
In nome della sicurezza di tutti il questionario era palesemente atto a volermi far dire che ero scontento, irritato e pieno di odio per come mi avevano trattato. Ma non scrissi nulla.
In nome della sicurezza di tutti son rimasto senza valigia né vestiti per almeno tre giorni e mi dovetti ricomprare i cambi.
In nome della sicurezza di tutti mi hanno poi restituito ogni cosa portandomela davanti a tutto il Kibbutz con i membri della polizia interna in uniforme (che quando gli israeliani stessi la vedono tremano) come fossi un carcerato.
Cosa volevano? Il mio odio.
Cosa volevano? La mia paura.
Cosa volevano? Non farmi entrare facendomi innervosire.
Non volevano che io mi immergessi in Israele, non volevano che io mi facessi avvolgere dal calore degli israeliani, non volevano che io stringessi amicizie, non volevano che io vivessi una delle esperienze più belle e forti della mia vita, non volevano che io in Israele trovassi amici ebrei ed arabi, non volevano che io provassi a capire Israele da dentro, non volevano che un essere umano vivesse una parte della sua vita perché per il terminale ero un soggetto pericoloso.
É così che vogliono farti sentire: sbagliato, brutto, diverso, colpevole.
Ne ho sentiti molti altri che hanno subito questi trattamenti. E non sono né criminali né terroristi.
Sono tutte persone normali che mi hanno descritto la stessa sensazione: umiliazione bruciante.
Così per me.
È stata l’esperienza più umiliante della mia vita – perché compiuta da un ente istituzionale.
È stata l’esperienza più illuminante della mia vita – perché ho capito cosa farà il potere delle nostre vite.
Perché in quei momenti capisci tutto.
Capisci che è un sistema ben rodato: una macchina per creare odio infinito.
Non crediate di essere lontani da tutto questo.
Il mio é solo un piccolissimo esempio per farvi capire quanto é vicina alle nostre vite questa follia.
Il mio esempio é importante proprio per la sua banalità, per la sua leggerezza, per la sua vicinanza.
É un sistema ormai diffusissimo ed esteso ogni giorno di più.
Una volta ho sentito una giornalista dire che il personale della Security aeroportuale non ha più nulla di umano.
Una mia amica – una nera americana – mi aveva detto che le facevano, ogni volta che partiva, la perquisizione come nemmeno a una terrorista e che perciò le era passata la voglia di partire.
Un’altra persona che conosco mi ha confessato che lo subisce ogni volta che esce dal suo stesso paese solo perché di origini arabe.
É vero: in quei momenti la tua mente cova solo rabbia e rancore.
Ecco cosa vogliono: il tuo odio per giustificare l’onnipresenza di militari e strumenti di sicurezza.
Per avere controllo totale sulla nostra vita.
Io in quel momento mi sentivo un italiano umiliato da militari stranieri e mi veniva da urlargli contro: sarebbe stato il loro sogno.
Un sogno partorito da umani che non conosco, con cui non ho mai parlato o da un terminale.
Un terminale che usa e incrocia dati inseriti in automatico o da gente anonima o da gente che non sa nulla di te.
Per i terminali un uomo diverso é sbagliato.
Per i terminali un uomo non può cambiare.
Per i terminali un uomo non può migliorare.
Per i terminali un uomo non può amare.
Per i terminali un uomo può solo fare peggio del giorno prima.
Il Medio Oriente e ormai il mondo intero sono rovinati da questa gente a cui ci stiamo consegnando totalmente.
Le prigioni si riempiranno sempre più di vittime dei sistemi di sicurezza.
In nome della sicurezza. In nome della sicurezza il nostro libero arbitrio.
Tutto questo che ho scritto é nulla rispetto a quello che sta succedendo ovunque nel mondo che ci hanno detto essere libero.
Pensate infatti a chi è sottoposto alle stesse umiliazioni ripetute mille volte o per una vita intera da eserciti invasori come accade da almeno 30 anni agli iracheni, agli afghani o ai ceceni, tre popoli vessati con embarghi, invasioni, perquisizioni, violenze e ruberie in casa. Fatte da chi? Da noi.
Pensate a chi, come i palestinesi, subisce due ore di perquisizione prima di andare al lavoro ogni santo giorno.
Per andare a lavoro.
Pensate ai paesi che stiamo devastando militarmente e umiliando religiosamente: e così stiamo ogni giorno allevando i nostri distruttori che a loro volta giustificano l’onnipresenza della sicurezza da noi.
Siamo noi che stiamo creando i futuri terroristi, i futuri kamikaze e le nostre future prigioni e leggi marziali.
Se trasformiamo la loro vita in un inferno umiliante loro ci porteranno l’inferno in casa.
Ecco il mondo libero e sicuro.
Perché ora i sistemi di security si diffondono subdolamente nelle nostre vite mentre i social network raccolgono i nostri dati ma soprattutto i nostri difetti e le nostre debolezze. Che un giorno useranno contro di noi.
In nome della sicurezza di tutti avranno il diritto di chiedere e sapere tutto di noi.
In nome della sicurezza di tutti avranno il diritto di pontificare tutto su di noi.
In nome della sicurezza di tutti avranno il diritto di umiliare tutti noi.
In nome della sicurezza di tutti stanno trasformando il pianeta in uno stato di polizia.
Questo non é più un mondo libero. La libertà non é scegliere il colore della nuova automobile, sognare di vestirsi come Lady Gaga o sognare l’ennesima rivoluzione.
E ora scusatemi lo stampatello:
NESSUNO PENSI CHE QUI SI SIA PARLATO DI ISRAELE.
NON GONGOLATE GIUDICANDO ISRAELE PERCHÈ TUTTO IL MONDO STA DIVENTANDO COSÍ.
PERCHÈ GLI UMILIATI SI TRASFORMANO SEMPRE IN FEROCI TORTURATORI.
L’UMILIAZIONE DI VERSAILLES HA CREATO I NAZISTI.
L’UMILIAZIONE DELL’OLOCAUSTO HA CREATO IL MILITARISMO ISRAELIANO.
L’UMILIAZIONE DEI POPOLI SOTTO DITTATORI E OLIGARCHI PORTA RIVOLUZIONI E DISTRUZIONE.
L’UMILIAZIONE DELLE NOSTRE INVASIONI HA CREATO GLI JIHADISTI INTEGRALISTI.
L’UMILIAZIONE DELL’AUSTERITY CI SPINGERÁ AD UNA SVOLTA AUTORITARIA.

ALLA FINE

Sono le 4 del mattino.
È il volo di rientro da Israele.
A Tel Aviv mi hanno accompagnato due dei miei migliori amici.
Una ragazza ed un ragazzo.
Non abbiamo dormito.
Il giorno prima nel Kibbutz c’era stata una festa a sorpresa per il mio addio, dove abbiamo bevuto, riso e pianto.
Una hostess legge il mio nome. Il mio nome non le dice nulla, le dice solo che sono pericoloso.
Non gli interessa cosa ho fatto nel Kibbutz, cosa ho detto, con chi ho riso e sorriso, dove ho sbagliato e dove son migliorato, le amicizie che ho stretto e tutta l’umanità che mi ha pervaso.
No.
Sul terminale risulta che io sono pericoloso.
La hostess comincia ad agitarsi.
Mi interroga scortese, sgarbata, urlando aggressiva.
– Dov’eri? – Comincia già come mi vede.
– Puoi provare quello che hai detto? – ancora.
– Cosa facevi?
– Puoi provare quello che hai detto? – ossessa.
I miei due amici intervengono subito, parlano con lei in ebraico, sono stupefatti, gli dicono di me e di come siamo stati bene. Sono indignati.
La rabbia e la ferocia della hostess stonano, sono un’offesa all’umanità che ci ha accompagnato finora.
La sua aggressione metallica non corrisponde a tutto quello che c’è stato finora.
La hostess un po’ si calma ma mi riempie di bollini rosso gridato. Bollini visibili e umilianti.
Cominciano a controllarmi ogni cosa.
L’ultima cosa che mi hanno detto i miei due amici è stata:
– Se non dovessi più tornare in Israele noi ti capiremo.
– Scusaci al posto loro – mi dissero umiliati al posto mio.
Ecco cos’era Israele. Ecco cos’é il mondo.
È tutta la bellezza dell’umanità che verrà schiacciata.
Vi diranno che è per la vostra sicurezza.
Vi diranno che sono norme antiterrorismo.
Vi diranno che è per il vostro bene.
Voi non credetegli.
Perché è nell’umiliazione che creano i nemici che dicono di combattere.
Perché ogni uomo umiliato è un soldato arruolato.

 

Manifesto Mostra collettiva "Declining Democracy"(dettaglio), Palazzo Strozzi, Firenze 23/9/2011-22/1/2012

 

Emanuele Casula

E' nato nel 1975. Dopo essersi laureato in Scienze Politiche a Bologna, è partito a lavorare in un Kibbutz israeliano, esperienza che ha indirizzato la sua vita verso la Cooperazione Internazionale e la ricerca universitaria. Ha lavorato come progettista, coordinatore e cooperante a un progetto che riutilizza le tecniche millenarie della pastorizia per rilanciare lo sviluppo rurale nel sud dell’Africa. Il suo primo romanzo, 2012 Obama’s Burnout, è pubblicato da Robin Edizioni (Roma, 2011).