Al momento stai visualizzando Maya “scantari”? Ovvero apocalissi sociali nei romanzi moderni
© J. Martin, La fine del mondo, 1853

“Durante la notte si svegliò e tese l’orecchio. Non si ricordava più dov’era. Il pensiero gli strappò un sorriso. Dove siamo?, disse.
Cosa c’è, papà?
Niente. È tutto a posto. Dormi.
Ce la caveremo, vero, papà?
Sì. Ce la caveremo.
E non ci succederà niente di male.
Esatto.
Perché noi portiamo il fuoco.
Sì. Perché noi portiamo il fuoco.”

(La strada, C. McCarthy).

Il fuoco. Novelli Prometeo incatenati alle rocce della desensibilizzazione e della disumanità, padre e figlio si stagliano su un manto di denso asfalto quali portatori del Sacro Fuoco della conoscenza e si scontrano, passo dopo passo, con l’amorale individualismo divenuto imperante dopo gli avvenimenti apocalittici (non ben specificati) che hanno condotto l’umanità, o almeno quello che ne resta, verso l’annichilimento di ogni pulsione sociale. Un’apocalisse dissociativa che ha frantumato il connettivo societario fino a far emergere i lati bestialmente immorali dell’individuo. Catastrofi letterarie che riproducono, amplificandoli, flagelli e angosce dei nostri giorni. Perché l’individuo li teme? Probabilmente perché concretizzano delle inquietudini sopite (e a volte neanche troppo). La tanto temuta profezia Maya, tra l’altro interpretata in maniera tendenziosa, non si è avverata. Eppure centinaia di individui erano pronti a suicidarsi in massa per sottrarsi all’orrore di una supposta fine imposta da eventi esterni. Proprio come nell’Anno Mille. Nulla è cambiato e l’uomo è un animale superstizioso. Un animale prima di tutto. E se in McCarthy la strada è il luogo in cui si perpetra e si tenta di ricreare l’arrancato processo conoscitivo, oltre che fisico, questa stessa ricerca è alla base di numerosi altri romanzi, specchi in dissolvenza degli angosciosi tormenti antropici. In Cecità, Saramago descrive minuziosamente gli effetti della diffusione di uno sconosciuto morbo che provoca l’accecamento fisico degli individui infettati. “Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono” (Cecità, J. Saramago).Un accecamento che conduce alla perdizione anche e soprattutto di coloro che ne sono immuni. In un tentativo disperato di mantenere la loro “normalità”, sono proprio i sani ad avviare quel processo di trasformazione che potrebbe condurre allo sgretolamento della società. Annientamento che viene scongiurato solo grazie alla miracolosa e inspiegabile guarigione degli infetti e quindi dalla ricomposizione dello status quo iniziale. Una cecità non fisica ma non per questo meno reale la ritroviamo nel romanzo La peste di Camus, in cui emerge la lotta dell’individuo contro il “tozzo microbo” della peste-ignoranza poiché “il male che è nel mondo viene quasi sempre dall’ignoranza, e la buona volontà può fare guai quanto la malvagità, se non è illuminata. Gli uomini sono buoni piuttosto che malvagi, e davvero non si tratta di questo; ma essi più o meno ignorano, ed è quello che si chiama virtù o vizio, il vizio più disperato essendo quello dell’ignoranza che crede di saper tutto, e che allora si autorizza a uccidere. L’anima dell’assassino è cieca, e non esiste vera bontà né perfetto amore senza tutta la chiaroveggenza possibile” (La peste, A. Camus). Il germe dell’errore “perduttivo” è innescato e l’ignoranza si propaga quale batterio che provoca l’accecamento conoscitivo e coscienziale, embrione delle apocalissi sociali. Ma l’uomo è un animale, lo abbiamo detto, ed è un animale sociale. Così ogni qualvolta il microbo conduttore di paura smette di agire, la fine del cataclisma conduce alla ricomposizione del consorzio umano. Anche nel romanzo La strada si ricrea nuovamente un tessuto aggregativo, attraverso la formazione di un nucleo primigenio, la famiglia, agglomerato di cellule alla base dell’ordito fraternitario. “Nessuna lista di cose da fare. Ogni giornata sufficiente a se stessa. Ogni ora. Non c’è un dopo. Il dopo è già qui. Tutte le cose piene di grazia e bellezza che ci portiamo nel cuore hanno un’origine comune nel dolore. Nascono dal cordoglio e dalle ceneri. Ecco, sussurrò al bambino addormentato. Io ho te” (La strada, C. McCarthy). Gli affetti riemergono come punto di partenza per il disconoscimento di quell’annichilimento sociale che viene descritto minuziosamente e che è concretizzazione e superficie riflettente di paure reali che vengono nei romanzi superate, così come ci si auspica nell’esistenza reale, dalla volontà dell’uomo di travalicare l’ostacolo posto dalla non-conoscenza, ottenendo la riesumazione e la neo-creazione di un tessuto coesivo più forte e articolato. La rinascita dell’uomo è legata e determinata dal suo precedente annientamento, che però non viene portato mai fino in fondo, e così, come la Fenice che risorge dalle ceneri, l’uomo, in lotta coi suoi stessi dubbi assiepati in una Babele cognitiva, emerge e sconfigge la Peste nell’istante stesso in cui lo vuole veramente. In tutto ciò, nei romanzi e nella vita, il Grande Assente pare essere Dio. “Credi che i tuoi padri ti stiano guardando? Che ti valutino nel loro libro mastro? Secondo quale criterio? Non esiste nessun libro mastro e i tuoi padri sono morti e sepolti.” (La strada, C. McCarthy). Anche coloro che si affidano all’Onnisciente in realtà si affidano alla fede, che coincide con la loro stessa persona, quasi a non voler sconfessare la vita che hanno vissuto fino a quel momento e a non voler vedere cedere, sotto il peso del germe, le convinzioni che hanno regolato la loro esistenza. Lo smarrimento, lo stato di abbandono che provano, le mancate vittorie, possono essere celate e maldestramente riposte in una scatola, ma in ogni caso, in Cecità, ne La Strada, ne La Peste, nella vita, basterà scoperchiare il vaso di Pandora per far emergere gli orrori. Basterà una profezia mal interpretata per far cedere allo sconforto milioni di individui. Basta poco, perché il seme dell’ignoranza attecchisce agevolmente nei luoghi (letterari, fisici, temporali, interiori) in cui l’uomo non conosce abbastanza se stesso.

 

 © J. Martin, La fine del mondo, 1853
© J. Martin, La fine del mondo, 1853

 

Francesca Taibbi

Nasce a Giarre nel 1981. Dopo alcuni anni peregrini nel nord Italia, ritorna a Giarre dove consegue la maturità all'Istituto Tecnico Commerciale. Si laurea in lettere all'Università di Catania discutendo una tesi su "Per l'edizione critica di Storia di una Capinera". Attualmente insegna presso un Istituto Parificato.