Al momento stai visualizzando Liotria, ovvero là dove fioriscono i catrami

(…) e non riversa né sé né eredi
il marchio che l’inquina…”
 
(…) è qui che i catanesi assisi a cerchio
pestano acqua in un mortaio ciascuno…”

(Cfr. Concabala, di M. Grasso – ed. Scheiwiller, Milano 1986)

 

Sono i bagliori della intensa solarità mediterranea a determinare alcune costanti della vitalità levantina di Liotria? La città dall’appariscente volto mercantile, ultimamente reimbellettato da contaminazioni esotiche, qua e là vivacizzate da colori baggiani, da lampare a cesto di vimini o ferro filato d’identità cinese, capaci di distrarre per un momento e insinuare nel passante suggestioni d’aure buddiste, di odori mai prima avvertiti, persino. E la fantasia vaga e vagola evocando fragranze d’estremi orienti per un verso e acri fumi di vermume fritto e servito tiepido a conclusione di rapidi passaggi in padelle insugnate e imburrate in pari dosi. Denso e vario, l’imprevedibile e il digerito. Quest’ultimo in vicoli eletti a urgenti richiami corporali.
Torvo l’occhio del posteggiatore onnipresente, come l’artiglio del kapò cui è dovuta la percentuale a misura dell’antico brando di Brenno. L’imposta che pagano tutti a Liotria, dall’abusivo della piazzetta con strisce blu, costretto a elemosinare un miserrimo supplemento al magnacci ante “Sostare”, al negoziante con licenza commerciale d’alto profilo. Lo chiamano “pizzo”, a metafora dell’onor del mento, tanto caro agli insicuri, agli esibizionisti, ai portatori di alopecie, nonché all’accezione del becco dei volatili, dai fringuelli, alle gru, dalle cicogne agli avvoltoi, dai colombi, ai gabbiani; pizzo è il becco di tutti. E sia meglio non procedere a incatenare sinonimi, perché l’accezione del becco può, legittimamente, prendere altre vie appropriate dal gergo ma impertinenti anche se di impronta universale.
È la vita. E a Liotria la vita è fluente come dalla tazza un brodo biondo di camomilla, ma questo tuttavia non toglie che spesso la vita di Liotria si trasforma in animalesca.
La solarità si diceva prima. Un denominatore su cui scivolano e si coagulano esiti di ogni possibilità all’aperto in falso ossimoro di fisse e operative trame cocchiere, che fervono al chiuso degli impenetrabili palazzi antichi e moderni, ove beano pupari e fruitori del pizzo.
E intanto le strade. Le strade come bazar : dall’ortufrutta alle cinture di cuio-plastica, alle lenti, pile, cravatte, anche virtuali. L’anima solare provoca, fino a eccitarla, l’anima levantina innata. La coccola, la nutre, la strapazza di paranoiche attenzioni interessate.
Gli uffici preposti alla Sanità hanno capito da tempo – vera pioneristica quella liotrina degli intuiti precoci – l’alto valore di laboratorio automatico che svolge l’esposizione di generi alimentari alle nebulizzazioni del chimico salutare, riversato dall’intenso traffico veicolare: uva, ciliegie, banane, mele, broccoli, carciofi, pomidoro, cavolfiori , gelsi, carote, lattughe, cicorie… testimoniano e confermano i turni di rispettive produzioni orticole stagionali, occhieggiano, mercanzia alimentare civettuola, da provvidenziali cassonetti di veicoli di ogni cilindrata, dall’ape da museo al lambrettone in predicato di rottame, al camion ultimo modello fiat. I bazar mobili dell’ortofrutticolo alimentare sostano maestosi o museali ai crocevia, o tra marciapiedi e mezzeria stradale, come altari su cui viene celebrato il riciclare degli scarichi di marmitte, l’effetto chimico “depo” di saluberrime polveri sottili destinate a vaccinare l’utenza contro ogni forma di male, specialmente a salvaguardia del “male del secolo”. Il lieve strato nobile e invisibile di catrame è vaccino infallibile, e viene somministrato in dosi fisse giornaliere a ogni passante e abitante; ma, la overdose, quella che garantisce una vaccinazione contro ogni forma tumorale, è la pozione che viene servita – tutto compreso – dalla merce alimentare esposta. É la formula vincente della vaccinazione popolare che la Sanità, appunto, assicura senza aggravio economico per i propri oscillanti e anemici bilanci oculati nella salvaguardia della gettoneria assessoriale, consiliare, etc.
In altre parole, dal vaccino obbligatorio degli scarichi che garantiscono la salute ai polmoni, alle vie respiratore alte (e basse! Meglio abbondare, non si sa mai) si è passati a scoprire l’insostituibile funzione di garantismo vaccinatorio che offrono, appunto, i beni alimentari disponibili nelle vie più trafficate dagli autoveicoli, dove il tasso-catrame sulla cibaria esposta è assicurato senza alcun aggravio per le casse dell’ente pubblico. I vigili urbani del traffico e della sanità sono stati istruiti con stage ad hoc, al fine di agevolare e ignorare gli operatori dei laboratori stradali della vaccinazione alimentare. Come sono stati precettati in corsi accelerati sul loro dovere d’intransigenza verso veicoli con mezza ruota che sfiori striscia pedonale. E a chiudere occhi e blocchetti di verbali in presenza di doppie o triple file di auto, nonché conseguente delizia di concerti al clacson, di quegli automobilisti abbonati al servizio Sostare che incautamente abbiano parcheggiato l’auto nelle apposite strisce blu. Una delizia di stridori e invettive che contribuisce a esaltare il clima mediterraneo solare della città dell’elefante, dove si aspetta che arrivi febbraio per festeggiare uniti, dopo l’intera annata di esasperati individualismi del genere ogni testa un tribunale.
Colpa della evidente assenza di mafia locale, che metta ordine un po’ in tutto e a tutto, dal Siculorum Ciucciansium al Teatro Bruttoni. Tutto dipende da Palermo, sentenziano i soliti salomoni. Ma è così? E se la vera responsabilità risiedesse altrove? Nell’assenza, appunto, della mafia? Nella verginità resistente e persistente in una Liotria talmente devota di Sant’Ammuccu da riconoscersi unita solo per alcuni giorni-notti della prima ottava di ogni febbraio ?
Nessuno che trasgredisca alla consuetudine, che s’improvvisi “arbitro”, che so, mediatore per ufficializzare una istituzione mafiosa in plain air. Nessuno. E dire che il mecenate Antonio Piramedico, forse perché messinese di origine, pur se adesso turiferario di Liotria per autoelezione, proprio nella città dei Palpacalli, ha istituito a la Casa della Provasia. Chiusa o aperta che essa sia.

 

2 – Liotria appendice di Magna Grecia fin da quella volta, quando Alcibiade (.. .). Già, Alcibiade e la spedizione in Sicilia, quando gli Dèi manifestarono il proprio dissenso facendo trovare mutilate le statue! Adesso di erme non usa molto, tanto che gli Dèi liotrini fanno giungere i loro messaggi con segni meno oltraggiosi per le erme e più accostate alla pratica umana quotidiana: ruote trafitte da trincetti specialistici, porte imbrattate, serrature intasate da candeline di liquefatta pece, petardi a bassotasso, miniassaggi al tritolo, lettere anonime.. Avvertimenti divini a norma di quella tradizione religiosa cara a una grande civiltà di cui si contende o si professa l’eredità. Infatti Liotria è città religiosissima, non potrebbero gli Dèi trascurarla facendola sentire carente di avvertimenti divini, come quella volta, in Grecia, appunto, con la mano pesante che aveva mutilato le erme per segnalare ai mortali il dissenso divino. Adesso spariscono le auto dai posteggi sotto le stelle. Ma basta un sacrificio alla divinità perché l’auto ritorni nella disponibilità del devoto fedele, purché tempestivo, quest’ultimo, nel rito di ammansire le disapprovazioni divine con adeguati sacrifici.
Dei tempi remoti d’altra Liotria si racconta di una docente che mai venne incontrata nell’ambito dell’esercizio professionale cui si era votata, sacrificando a tutti gli Dèi dell’Etna e delle Alpi (L’Olimpo italiano). Percepiva stipendi e straordinari ma non si presentava a far lezioni, con grande giubilo per i discendi. Ebbene? Niente assenteismo, come uno sprovveduto potrebbe pensare, solo saggezza del Rettore magnifico che, tra i due danni, quello di farla insegnare e quello di farle giungere lo stipendio a casa, autorizzandola a turismi culturali nelle più remote regioni dell’universo, aveva scelto quest’ultima soluzione. Una storia d’altri tempi e di altri Dèi. Ma non sia detto che l’esperienza non possa essere ripetuta, in una città dove la vigilanza delle divinità invisibili non molla. E gli Dèi bisogna adorarli e sacrificare in loro onore, pena, anzitutto e comunque la morte civile, a fronte della quale le altre punizioni dello sparire dell’auto o del taglio delle ruote risultano blandizie e provvidenze che solo gli Dèi liotrinei possono pietosamente elargire a chi non sa adorarli, a dovere di norme non scritte ma ferree, inviolabili. Inoltre gli Dèi premiano. Sembrerebbe leggenda metropolitana ma premiano davvero, assegnano persino allori di poesia in città e persino a Malpasso! Dove può arrivare il potere degli Dèi etnei! A fronte dei loro prodigi quelli dell’Olimpo rimediano la figura di scolaretti sbarbatelli.
In una città cara agli Dèi non potevano mancare i semidei. Ce ne sono da farne sprechi, dai centauri notturni a cavallo di motorini/motoroni che, privati dalle marmitte per segnare la distinzione semidivina di chi le cavalca, fendono strade e udito provocando trasalimenti notturni nei dormienti, lungo i percorsi che solcano a velocità consentita solo ai semidei notturni quali sono. Essi appartengono alla categoria che interpreta a fondo l’indole liotrinea che mette allegria, consapevole del vezzo tutto siciliano di adorare i rumori e produrne a misura dello stato di contentezza divina e disinibita. A liotria infatti più si è allegri più si prediligono rumori assordanti e chiasso che contagia, esalta, eccita, travolge.
Altra categoria di semidei la si incontra a ogni trenta passi, dai consigliere di quartiere, al capocondomio, dal ragioniere con moglie avvocato, alla docente con marito potente. L’anello al naso dei consiglieri comunali, dei presidenti di enti e carrozzoni mangiasoldi, le ruote a penne lunghe di ambigui prelati, fischio al naso di burocrati dirigenti, carrozze a cinque muli di psichiatri, sociologi, avvocati, la isteria da beatitudine di tante avvocatesse, la incipiente calvizie degli esattori e degli uscieri dei tribunali.. mutrie proboscidali di ufficiali postali e dirigenti di catasto, tutta semantica infallibile della semideità di diecine di migliaia di inquilini della città dell’Elefante che, e sia detto a loro onore e gloria, altro non sono che ripetizione dell’umanità precaria inquilina di tutto il mondo, quindi non solo di Liotria. Qui solo gli Dèi hanno identità autonoma, irripetibile anche se epigone della dinastia del mitico Olimpo.

E l’Elefante? L’Elefante in sé in quanto tale e quale? Scrivo con la maiuscola in omaggio al simbolo che accusa la memoria di responsabilità indicibili. Ma anche per questo la vita che continua con grazia elefantiaca può essere bella più ancora del bello. Un elefante di pietra non può barrire, resta impotente al momento di potersi unire con le cadenze di sue assordanti note al frastuono del suo stesso regno! E lascia qualche malinconia come di un giustiano re travicello piovuto a ranocchi più degni di essere inghiottiti da un serpente.

 

puccio