Al momento stai visualizzando L’invito

La signora Gasparina Ancomì era rimasta seduta e intronata per farsi rispettare l’età, ce l’aveva, se la teneva stretta e fiera la mostrava. Gli ospiti entravano uno alla volta nella stanza da pranzo. Parevano che entravano in scena per chiedere l’elemosina di un bevenuto: Ciccina Forcone, Franco Sapienza, Cettina Nobel, Gegè Supposta, Citolena Citrolenaa, Marianucia Immodocà, Onestity Abonucori, Carmelina Inferriata. Come se fossero un companatico la signora toccava loro la temperatura della sua emozione per il carattere dell’arrivato. Li assaggiava con lo sguardo e mano a mano li metteva da parte soprattutto chi si era improfumato dato che per lei significava che voleva far credere che. Lei oramai si era un po’ lasciata andare al punto che non si passava più la tintura sui capelli e ora si sentiva come l’aveva fatta sua madre. Aveva scoperto che a sembrare più anziana ci si guadagnava soprattutto dalla parte dei giovani che le azzeravano i sentimenti d’invidia, che giustificavano qualche parola detta in più per la potenza del cervello presupposto meno elastico.
“Vi siete combinati in grande pompa? Pure i maschi ora si affilano per non far sfigurare le mogli? Giuro che non riesco a capire se siete una ciurma o se siete una truppa, se avete vinto al Totocalcio o se avete azzeccato il Terno. Sssschut. Calma! Ma cos’è questo terremoto che fate? Ci pensate che potete inquietare la signora che abita di fronte da prendere con le pinze? Quella passa creme da mattina a sera, dorme con la mascherina per evitare lo sviluppo delle rughe. Dorme da sola nello stanzino perché il marito fa rumore a respirare”
“Matruzza bedda, vossia mi insegna che le dita della mano per quanto diverse sono, non se la fanno sempre insieme? Se uno di noi presenti sparge la voce che stasera viene a festeggiare con lei, all’oscurata della giornata va da sé che siamo a processione sotto il suo portone, e siccome conosciamo di quanto siamo maggioritari e mangiatari, non ci presentiamo a mani vuote. C’è chi l’odore lo lascia quando se ne va perché non contraddice mai, c’è chi l’odore lo fa entrare in primis dei piedi. Se viene a sciauriare davanti l’ascensore, lei si crede di essere al ristorante. Non facciamo che qualche vicina incinta sgrava?”
“Tu che parli a mmatula proprio tu, tu non fai niente per il niente. Perchè sei venuto? Parla chiaro”
Sembrava che l’avesse con Gegè ma era questo la maniera sua di scherzare. Le piaceva pungere e si divertiva abbastanza.
“Signora Ancomì, Onestity come mi chiamo, mi sono presentata qui perché sono una ragazza semplice e non mi sento donna fatale, vivo alla bonacciona, sono una sentimentale e rispetto gli amici di mio padre Rosario e di mio nonno Luca. A mio marito ogni tanto gli viene fantasia. Oggi stabilì di passare la serata qui da lei, perché stima che alla faccia dell’età che ha accumulato è moderna, sa stare allo scherzo, alle cose nuove e che non c’è posto migliore per realizzare e per soddisfarsi lo sfizio di questa fantasia.”
“Ahi giovanotta male fai, abituati che il marito si deve lasciare a desiare”
“Perché meschino se mai mi ha scosso come un albero per far cadere i frutti, se mi balla davanti come Michael Jackson per vedermi sorridere? Più dell’anima mia io gli voglio bene:”
“Eh cara mia, il mangiare, prima si fa un po’ raffreddare e svaporare se non ci si vuole bruciare….”
Gegè non poteva restare ad ascoltare. Lui si scialava a udire la propria voce:
“Mizzica sempre complicate siete voi donne? Se attaccate bottone, nessuno vi può tappare la bocca. Lasciate parlare me che ho il ciondolo grazie a Dio e ne sono orgoglioso”
“Ascoltate come se la chiama ciondolo. Anche se hai il ciondolo io non so se darti o no credito, perciò rilassati”
“Mi deve credere, a quest’ora sono ridotto a cacamella. Questa è stata una settimana continuativa di lavoro. Sono abbrutito. Ogni tanto mi capita purtroppo. Quand’è così, mi riduco che al risveglio mi viene più difficile ricordarmi della parte che devo recitare durante la giornata. Certo a casa faccio il padre, al letto faccio il marito, al lavoro il guardiano e altro, quando ci vuole. Vossia non è all’oscuro che quando sono senza cassa integrazione, mi affido alle mani mie e non a quelle di Gesù Cristo. Insomma mi arrabatto. Mi arrabatto assai in tanti modi perché conta soltanto vedere sereni quelli che voglio bene, che sperano di vedermi tornare vivo e libero la sera. Eccoci qua ora. perché le cose si fanno o giuste o niente. A effetto uno di noi si è incaricato di portare da bere, un altro di portare il cucinato, un altro la leccumeria per non fottere la tasca di qualcuno, per non ritrovarsi con queste donne stravacanti di fatica. Col suo permesso, Signora Ancomì, stasera giochiamo per prima agli inglesi, fatto che giustifica la mangiata tiepida, insomma cena fredda si dice all’americana. Ma come dobbiamo sederci, c’è un ordine? Per carità quelle due sorelle con le palle quadrate non me le mettete vicino perché mi fanno svenire l’appetito, le due vergini insomma. Eccezionalmente accetto di sgomitare il Dottorino. A me lo scrigno mi sta fra le ginocchia, ci voglio mia moglie seduta di sopra”.
Ciacciacciavano tanto quanti erano, a blocco, non si capiva con chi, né perché, né per quanti. L’importante era fare numero e rumore. C’era pure chi ascoltava la metà delle frasi, perché doveva tuffarsi sull’assolo di qualche altro che lo smirciava. Succedeva in più che qualche incomprensione della frase di partenza poteva prendere il senso all’arrivo del finale, anche aggiungendo le parole di un altro. Si erano adoperati i profumati di starsene alla larga della padrona di casa che si alterava alle viole, al gelsomino e via discorrendo a causa di quel naso super odorato che certi minuti riusciva ad appesantire le palle, se veniva vissuto come un comando. C’era pure chi era arrivata con le tasche gonfie del grembiule dove proteggeva col corpo l’incasso della giornata di lavoro nella bottega di panelleria per cui l’esigenza di mangiar a parte. I soldi le servivano per la giocata prevista a fine sbafata. Il pendolo dell’orologio a cucù se la faceva a conto suo, non voleva avere a che fare con loro. Stava ad ancheggiare sinistra e destra tra quei sorrisi di facce di operai stanchi che si erano messe da parte le ultime cartucce d’energia per onorare il Santo Natale. La signora Ancomì si era passata lo sfizio di cambiarsi l’arredamento matrimoniale, per una volta soltanto. I mobili di conseguenza avevano un’età rispettabile. Gli ospiti avevano un sorriso che gira gira scorreva tra le labbra di tutti, come se fossero una sola persona. Ognuno continuava a pronunciare per non lasciare vincere il silenzio. In quei momenti di allegria non avevano un discorso preparato in anticipo. Gli occhi appartenevano a ciò che era avvolto dentro le cartate di rosticceria. Gegè però tirò un asso dalla manica:
“Cornuto è chi non accetta di partecipare”
In coro accettarono:
“Tutti partecipiamo a pistiare”
“Quali pistiare? Dissi poco fa che è serata all’inglese e tale deve restare”
Il coro non sopportava di essere schiavo:
“Ma per chi ti prendi? Chiudi quella cascia, parlaammatula. Ma che è quest’Eurovisione stasera? Che è questo nolito?”
“Ma andate a quel paese manco sapete cos’è il romanticismo, cos’è fabbricare del nuovo, siete morti nell’uovo. Siete una massa e niente altro che una massa.”
Cettina era stata la più conciliante:
“Non t’incassare Dio buono, Facciamo che prima mangiamo e poi ce lo racconti. Stiamo svenendo, tutto il giorno abbiamo digiunato sapendo che dovevamo fare baldoria qua. Sbrighiamoci che poi facciamo danzare le carte”
“Signora Ancomì gliela posso affettare la faccia, a questa faccia di parallelepipedo che mi vuole muto”
“E’ possibile che vi cambiate il soprannome ogni settimana? Anche di questo fate a – tieni e piglia – ? L’abbondanza è una malattia. Imparate a risparmiare che sento puzza di stenti con questo spendi e spandi della gioventù che non si sa sudare il pane. Vi scambiate i soldi come se foste una sola famiglia. Come dice il proverbio?
–Non dare ai tuoi parenti ciò che serve ai tuoi denti-
Anzi vi avverto che se continuate, anche il superficiale ora togliamo, il bere dalla tavola e così restiamo lucidi come piace a me che ho sempre la testa al posto giusto”
“Forse siamo sensibili. Ci scialiamo a turno nella fame noi senza lavoro assicurato. Ma che ne sa lei? La sensazione della fame ci rende deboli. E’ che volevo ricordare e confermare i Catanonni. Ho pensato che noi siciliani abbiamo il budello attorcigliato di quanto ne abbiamo viste e sentite e conservate. Prima di mangiare c’è lo raddrizziamo, c’è lo svuotiamo delle delusioni e dell’amarume. Nonno Luca e mio padre mangiavano con quattro piattini invece la mia famiglia è ridotta a panini imbottiti. Io e mia moglie li abbiamo messi in quadra i nostri figli:
-Guai a somigliare ai bisnonni-
Di questa razza si salva Cettina perché è una cristiana di cuore. Su certe cose io sono zero anche se sono un  bello spicchio di mandorla  non gli posso lucidare manco le scarpe. Ora basta con la filosofia di vita. Ora comincio a dettare le regole del gioco inglese” (…)

Rosa Pedalino

Nata a Leonforte in provincia di Enna,dove ha trascorso l’adolescenza, si è trasferita a Parigi, ha insegnato alla Sorbona e ha, per anni, mantenuto rapporti di coordinamento con gli emigrati italiani. Adesso vive a Grenoble. Tra le sue pubblicazioni creative un libro di racconti Decamerone siciliano (Prova d’Autore 1989), e i recenti Agli àgli m'incipollo e Di me mi prendo e di me mi lascio (Prova d'Autore, 2011).