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Sicilia 1958: vite improbabili di una puttana

L’uomo che racconta ha storie conservate tra pieghe cerebrali, cellule e segnali elettrochimici, anche se fossero vecchie d’un giorno, sarebbero lo stesso storia e leggenda. Per esempio storie d’amore e amicizie. Non sopporta che qualcuno pigli il suo posto e racconti al posto suo. Non credete a certe fandonie, dice, veglie di morti, e morti stesi su un tavolo. Ve l’ho raccontata io quella giusta, dei due amici. Erano amici. Sono pazzo di lei, Aida, Aida, dice l’uomo dai capelli intrecciati come un banco di aguglie. Sei pazzo, l’altro è l’amico, e sorride seduto al tavolo davanti a lui. Povera triglia stordita, pensa, ti sei innamorato, ma cos’è l’amore quando sul mare navighi il vento, quando tiri su quei pesci che saltano più azzurri e più neri del mare, più inafferrabili dell’acqua del mare? Aida, Aida, si lamenta l’uomo e ha i capelli intrecciati come un covo di bisce. Ma l’amico non vede i serpenti, il presagio, bevi un sorso, dice. La voglio, o muoio! Certo, scherza l’amico, tu vuoi morire. Sorride ancora, e pensa, morire, morire, certo, e invece ci si innamora delle puttane, di puttane, e di coltelli dal manico d’avorio, di notti di luna, e strade che sprizzano sole e vento salato, di mari aperti e pesci ribollenti, ci si innamora di puttane, di gambe bianche e lisce come uovo, di pensieri fragili come uovo, strade e puttane, ci si innamora di barche da pagare in soldoni, di mari di cento colori, di gusci d’uovo, maledizione. Mi sono innamorato, ripete ebete l’altro. Certo, ti sei innamorato certo, ripete l’amico con un sorriso. L’altro lo prende per il bavero, non hai capito, non sei mio amico! Certo, non ti sono amico, e sono amico delle puttane e delle strade, del mio coltello se qualcuno mi fa sgarro! Non sei il mio amico! Di chi sono amico non lo so, ride ma passa una rabbia nei suoi occhi, e una tristezza. Ti ha fregato, pensa, dovrai tenere affilato il tuo coltello, non voglio più parlare con te. Hai capito? lo scuote l’uomo dei serpenti. Sì, pensa l’amico e piega il capo, maledizione, lasciami, è vero non sono amico tuo! Pensa a puttane e coltelli, ci siamo andati insieme ai bordelli, e ci abbiamo tagliato lenze, con i nostri coltelli, sventrato pesci, fianco a fianco su una barca, possiamo anche tirarci fuori intestini d’uomo se occorre, se ci danno il tempo, se non ci fregano a tradimento in un vicolo, possiamo tirarci fuori i nostri intestini e sbatterli qui, tutti e due, su questo tavolo d’osteria, lo facciamo? Ti sei innamorato, va bene, grand’uomo! dice l’amico. Grand’uomo? si rabbuia l’altro. Sì, grand’uomo, chi è innamorato è un grand’uomo. Chi è innamorato s’innamora della morte, pensa. Sei grande, grand’uomo, quanto il mondo, il tuo cuore è grande come il mondo, dice l’amico ridendo. Non importa quant’è grande il mare, pensa l’amico, sempre piccolo in confronto al tuo cuore di triglia, non importa quanto son lunghe le strade, piene di donne ai balconi, non importa una donna nuova, non importa quant’è dolce il primo caffé, e amaro l’ultimo, quant’è amaro e dolce l’ultimo bacio a una donna. Non importa, pensa, quant’è bello guardarsi le donne, per strada, mille colori, gonne e fazzoletti – hanno sempre da bisbigliarsi alle orecchie, sempre segreti, e sguardi profondi tra le ciglia – tu hai già tutto, hai il mondo, ed è grande – che ti parlo a fare? – le parole sono inutili, inutile sapere dove calare le nasse, e tirare gli ami, come disincagliare la rete dalla secca, dove tuffarsi, inutile tuffarsi nelle strade del porto e nei colori delle donne. Domani si va a pescare! recita l’amico inutilmente. Non vengo. Certo, pensa l’amico, lo sapevo. Vado solo, scrolla le spalle e gioca con il manico del coltello in tasca, vado solo e non divido, ride l’amico. Neppure io divido, anche l’altro ride adesso dopo un attimo.
Non si divide mai niente, né il male né il bene, intervengono sulla storia del cantastorie.
Eppure quell’amico ha diviso, ribatte il contafrottole. Riflette tra sé, chissà che c’è tra due uomini al tavolo, che c’è tra un uomo e una donna, da raccontare, pensa, che c’è nel morto che un impostore ha steso sul tavolo d’osteria della mia storia. Il contafrottole non ci campa con le storie, però nessuno deve raccontarle al suo posto. Non si vive di storie, ci si guadagna poco, al massimo qualche soldo e un bicchiere di vino, però lui, e lui solo, le racconta. La verità è che le storie si formano da sole, e non hanno bisogno di nessuno, meno che mai del loro contaballe. Maledizione, non hanno bisogno di me. Si pigliano una bocca, quella che vogliono, e soprattutto si pigliano le teste di chi ascolta, vi allignano come l’erba cattiva. Liquefanno in bocca come saliva, a volte non hanno sfogo nel petto, e quando escono è come se fossero ancora dentro la loro bella scatolina d’idea, e gola e petto d’uomo. Non hanno sfogo, e non hanno inizio né fine. Perciò ci sta dentro tutto. Ma che cosa? Una donna, due amici, un dialogo d’osteria, e tutto ciò che non esiste. Può esserci una puttana. Ma può esserci una fantasia, per esempio potrebbero esserci un dinosauro e un drago e sedere come amici a quel tavolo d’osteria, insomma la prima immagine, la più assurda, che passi per mente e non c’entra nulla. Non c’è da chiedersi che c’entri, c’entra perché, un cantastorie lo sa, le storie s’intrecciano tutte, all’infinito, e a quello vogliono arrivare, quello lui deve evitare. Perciò due amici parlano d’Aida, d’un amore, seduti a un tavolo, parlano d’amicizie, e possono pure esserci il dinosauro e il drago, che non c’entrano niente, e parlare di Aida perché la conoscono in chissà quale intreccio di storia. Perciò il cantastorie parla di storie e bestie venute dall’infinito, e di Aida, perché gli sembra importante, storie e fantasie, e non vuole morti in quel momento, specie quelli di racconti altrui. Forse ha bevuto qualche bicchiere, e comincia a far confusione. Oppure comincia a vedere più lontano, a vedere tra storia e storia, tra realtà e storia, tra storia e realtà. Dev’essere così, perché li vede, quei mostri, sono lì, i mostri dall’infinito, accovacciati in una caverna, in un buco nero dell’universo, a discutere come brave persone, come i due amici all’osteria, come donnine nel cortile, come le puttane sotto i portici della stazione, lui solo può parlarne.
Ridacchiano gli uomini tra i tavoli in ombra. C’è freddo e pioggia fuori e nessuno s’avventura. Vediamo che inventa il fanfarone. Intanto si resta con i piedi al caldo e le scarpe asciutte, con il calore del vino nascosto e geloso nello stomaco. Si diventa vigliacchi con le storie? Draghi? Roba da bambini, chissà, si diventa bambini ad ascoltare le balle. Quel fanfarone ci incanta, come un mago. E davvero ci sono draghi da incantare nei cuori, nel gelo di fuori che morde la pelle, ci sono colombe e magie da liberare dai cappelli.
Parlino le bestie, parlino degli uomini! Storia e leggenda, dinosauri e draghi, dei d’un altro mondo, blatera il cantastorie. E’ favola, è religione la storia. Il dinosauro e il drago, la bestia della preistoria e quella fuori dalla storia. La caverna è il centro di fuoco della terra, il cuore del vulcano facciamo conto. Il dinosauro… il dinosauro… il cantastorie gira uno sguardo indagatore, il dinosauro invece… ha il muso del nostro padrone.
Muso di porco, recitano in coro.
E’ per farvelo immaginare.
Muso di porco, sghignazzano.
E’ lui, ma più grande. E più onesto.
Hai sentito? Più grande e più onesto di te! Uno è muso di porco, e il drago? sghignazzano.
Il drago? Il cantastorie gira un altro sguardo. L’avete capito chi è il drago? E sono tutti e due leggende, tutti e due sono dio.
Io l’ho capito, dice uno furbo, strizzando l’occhio.
Certo, lui l’ha capito, sghignazza un altro. Certo, è uno di noi, uno che conosciamo, dio compreso, sghignazzano.
Io vorrei capire davvero, pensa il contafrottole. Continua a voce alta, parlano tra loro del mondo, e di Aida, come amici d’osteria.
I più ubriachi perdono il filo, smanacciano tra bicchieri e carte da gioco. Una mosca scappa, torna sul tavolo, è tramortita, non è più la sua stagione, striscia sopra una bottiglia, vi s’appiccica e non va via, forse vi resta finché muore. Il cantastorie la guarda. Intona la storia delle storie, ecco, muso di porco stende le zampe verso il fuoco della caverna, al centro della terra, in quest’osteria insomma. Basta che si muova un poco e vengono giù le case nel terremoto, per chilometri di roccia sopra di lui, ridacchia il contaballe. Basta che uno di noi, il drago, rutti, e il suo fuoco di stomaco sbuffa da un vulcano in superficie.
Ridono, alzano i bicchieri e brindano. Brindiamo! A cosa? Ci fai ridere. Brindiamo!
Anche Aida rideva, le piaceva ridere. I due amici però non lo sanno a quel tavolo d’osteria, e non sanno neppure di che parlano. Non sanno di che parlano le bestie dell’infinito. Muso di porco, il dinosauro, stende la zampa, si dà importanza, così è più importante quello che dice. Io… dice muso di porco. Il cantastorie fa una voce fonda e buffa. Io, dice il dinosauro, sono vecchio come il mondo. Con me è iniziato, io so di Aida e dell’amore, dell’amico e del morto. Io sono la storia, quella che non si conosce mai. Ve la do a bere da quando è iniziato!
E ci guadagni dandocela a bere, ridono, maledetto muso di porco. Dacci il vino buono! L’oste fa finta di non sentire. Il cantastorie caccia la mosca moribonda che gli gira sul naso, appiccicosa come ogni malato e moribondo, alza lo sguardo strabico verso un’astrazione del tetto. C’era un tempo un cantore cieco, lui è soltanto strabico. Lì sopra, pensa, è morta Aida, e s’è portato con sé il suo mistero, il mistero che c’è in ognuno, in ogni storia, la sua realtà, la realtà ecco il mistero. Io l’amo, io la voglio, dice l’uomo seduto al tavolo. E’ un mistero. Divideremo anche questo, pensa l’amico di fronte a lui. E’ un altro mistero. Aida respira piano sul suo letto, un altro mistero. Il dinosauro dice, è cominciata con me. No, ribatte il drago, con me, lo ripete, un’eco prepotente. Il cantastorie strizza un occhio alla sua gente. Potrebbe continuare così per secoli, vero? All’infinito. Possono continuare a contraddirsi sullo stesso discorso – che discorso? – e far tremare i monti e i vulcani della terra, i tavoli di questa osteria. Perciò deve cambiare, e bisogna trovare un punto.
Sei ubriaco, oggi! Chi ti capisce?
Per un dinosauro trovare il punto è abdicare il proprio regno sulla terra, è l’estinzione. Cos’è questo punto? si chiede il nostro oste, dio e dinosauro, lui conosce solo la precisione.
Lui conosce solo il tatto dei nostri soldi, ridono.
Il punto? Qui il drago non sa rispondere. Poi ha un’idea. Perché il cervello gli gira, più che all’altro. Il punto è il giorno che hanno lottato e versato sangue, non importa perché, non importa chi muore, non importa la morte, non importa il mistero e neppure la realtà. Il dinosauro agita la zampa, deve far finta di comprendere, s’infila un’unghia enorme nell’orecchio, ha prurito, ma deve darsi contegno, perciò si pulisce tra i denti l’unghia, e annuisce con il testone.
Lo fa, lo fa sempre muso di porco, ridono.
Dev’essere scritto però, dice il dinosauro, dev’essere preciso. E’ assurdo dirlo a un drago che non esiste!
Sei ubriaco!
Io solo la so. Adesso il cantastorie ha il punto, e nessuno può batterlo, nessuno può inventare al posto suo. Quei due amici, vi dico, discutevano faccia a faccia e una bottiglia in mezzo. Lì sopra c’era Aida, lì dove guarda muso di porco.
Ci guardano tutti. Quasi ci fosse Aida lì sopra, giovane sul suo letto d’amore!
La mosca muore, si stacca dal tavolo, cade in un vortice d’ali stecchite. Il contafrottole ne accompagna la caduta con un occhio. Invece Aida è viva e candida sul suo letto. Faceva pensieri strani il giorno del duello a pugnale, Aida. Ma nessuno di quei pensieri aveva sangue, nessuno faceva presagire il sangue.
Guardano ancora il rettangolo di tetto.
Aida aveva gli occhi socchiusi. E d’un tratto i gabbiani la sollevano. Fila veloce sull’azzurro di mare, su quel cielo rivoltato d’acqua. E’ un bel pensiero, e non ha nulla di sangue, di ferite, di duelli e morti, niente di quello che sarebbe successo. Un bel pensiero. Però Aida si rivoltava nelle lenzuola del suo letto, come fossero ruvide e sporche, e sudava come fosse mezzogiorno d’agosto. Non lo era, era un pomeriggio né caldo né freddo, di quelli che passano leggeri e sembrano mai venuti, e passati. Passa così tutto il tempo? Eppure quel giorno è il punto, se volete. Se non lo è dobbiamo fingerlo. Alzati, le dice la padrona, vuoi dormire? Devi guadagnarti la giornata. Ti brucio la pianta dei piedi, se non mi guadagni! Ti scortico i piedi se non mi lavori, tanto non importa se stai dritta, mi guadagni lo stesso distesa. Sei malata? Le torce un capezzolo. Però anche la padrona non tocca la pelle d’ambra di Aida, solo il capezzolo d’un seno, così bella Aida, così redditizia. Ti scortico la pianta dei piedi, minaccia. Forse lo farà una volta, avrà il cuore di farlo, forse le piacerà farlo, come le piace torcerle il capezzolo, e accarezzarglielo quand’è dolente. Aida si solleva, alza il busto a stento. Ha i seni nudi come una santa e martire. Puri e perfetti come una santa e martire.
Nell’osteria guardano tutti sul tetto. L’abbiamo sempre detto, una santa.
Lei non sa che è quello il giorno. E’ innocente. Non sa che lotteranno, che gli amici si separeranno, che ci sarà un morto. Non sa che parlano di lei tra una bottiglia di vino, che un drago e un dinosauro l’hanno scelta, hanno scelto quel giorno. Neppure conosce l’uomo che morirà. O forse no, forse l’ha visto qualche volta, ma nudi si somigliano tutti gli uomini. Ci sarà il sangue. Questo importa, il sangue vivo tra gli uomini, non la veglia d’un morto. Facciamo rimbombare il cuore della terra dicono i draghi e i dinosauri, facciamo eruttare lava e fuoco, scriviamo la storia con il fuoco, marchiamo a fuoco Aida, gli amici di vino, e tutto il resto, bruciamo tutto.
Bruciare tutto? stupidamente, i clienti dell’osteria. Muso di porco ghigna in un angolo, i suoi gatti neri sono maschio e femmina, filano via a fare l’amore.
E’ davvero una stupida invenzione, bestie inesistenti e dei, pensa sincero il contaballe. Non sa che voleva dire, di che voleva parlare, ma sa che nessuno deve farlo al suo posto. Bestie e dei, bisbigli d’amici, sono davvero ubriaco, pensa bevendo il vino che s’è guadagnato.


A volte non si è ubriachi, ma si fa finta d’esserlo. Il tonto sta sul molo e balla su una gamba, poi sull’altra. Come ubriaco. Ma non lo è. Succede che a volte vien voglia di cascare laggiù, nel fondo senza fondo di quell’acqua scura del molo. Ci s’è tuffato tante volte trattenendo il respiro, con il gancio per polipi in mano, fino al fondo, fino a fare scoppiare i polmoni, per arpionare una preda tra le rocce e i rifiuti del fondo. Però a volte quel fondo sprofonda più giù, una scatola cinese, il fondo del fondo, e un altro fondo dove non s’arriva. Neppure facendo scoppiare i polmoni. A volte qualcuno imita la danza d’alghe nella risacca. E’ meraviglioso danzare su un solo piede – e non si è ubriachi – ondeggiare come alghe legate al fondo, legate alla musica andata e ritorno della risacca, essere venati d’alghe, di verdi arterie sulla pelle, essere neri di nafte, pelle cotta al sole di pescatori. Uno balla come fosse in acqua, sul fondo, e non sa cosa attiri di quel fondo. Non sa perché si finge il vino sul molo. C’è un corpo riflesso sull’acqua, ondulante, su una gamba, sull’altra, nell’altro corpo del mare, uniti per un amplesso senza sesso e ragione come tanti. Possono danzare insieme, mescolarsi, rimescolarsi come una giostra di bambini, come un amplesso d’adulti, possono frangere luci sott’acqua, come si frange il sole su una giostra. Un corpo può giacere nell’altro come una tomba. Ma è roba d’ubriachi davvero.
Che fai lì, stupido?
Niente. C’è una faccia riflessa nell’acqua, verde come l’alga, brillante come il sole.
Caschi giù!
Non casco. S’è invecchiata, la sua faccia riflessa, il tonto piega il collo, s’è stancato quel corpo che danza, è stato tutto in un attimo. O non se n’era mai accorto ubriaco? Ha rughe di luce e d’alga, corpo d’onda disfatta.
Vattene a lavorare!
Non m’hanno voluto i padroni di barca. Sono partite le barche e non m’hanno voluto.
Chissà quando tornano, mesi interi fuori, a tirar su tonni come montagne. Però se va bene, se non ti casca addosso uno di quei bestioni e t’azzoppa o t’accoppa, con i soldi si sta a posto tutto l’anno. Che se ne fanno le barche d’uno scemo che balla su un piede?
Mesi interi in mare, bisogna suonare e ballare le notti. Io so ballare su un piede.
Bisogna usare le braccia e il cervello, invece. Quelli che non hai, tonto!
Bisogna portarsi la musica d’una radio, pensa il finto ubriaco, musica quando il mare non ha terra.
Vattene a casa!
Non ce n’ho casa, sono ubriaco, dice il tonto mentre cerca l’equilibrio su un piede. Mentre continua la sua danza sul molo, i gabbiani gli stridono in capo, girano come avvoltoi.
Lo diceva Aida che eri un bambino.
Aida? Un bambino fa l’ubriaco, un bambino si guarda nell’acqua.
Un bambino balla su un piede!
Un bambino va in galera, urla lo scemo, io ci sono stato. Sa di manette e sudice tazze il tonto e bambino, di poveri secondini, sa di legge, di avvocati avidi, e giudici tronfi e corrotti.
Ci pensi ancora? Sono passati gli anni, hai i capelli bianchi ora, e nessun cervello come un bambino.
Dieci anni! Dieci anni in galera, gli ho spaccato la testa, a quello.
Non pensarci, tonto.
Il tonto socchiude gli occhi in un godimento, quella sua testa aperta, come un melograno aperto…
Non dire così, Gesù santissimo. Non dovevi spaccargliela, e non dovevi farlo a tradimento.
Lui era a terra, e la sua testa era un melograno aperto… Non ce la facevo a staccarmi da lì. M’hanno tirato via.
Sei davvero un bambino. Che Gesù ti guardi il cuore. Come a un bambino. Torna a casa adesso.
Non torno da nessuna parte.
Lo diceva Aida…
Che diceva? Se la sono portata via dentro una cassa, me l’hanno portata via…
Ma che ti frulla in quella testa matta?
Non ce l’hanno fatta a portare la cassa nell’ammezzato, troppo stretta la scala a chiocciola. Hanno portato giù il cadavere. Duro come il legno della cassa, è stato difficile, difficile ficcarla dentro, chiuderla dentro. Lasciatemela stare, dicevo, lasciatemela stare, non vuole andarci, non vedete?
Ma che pensi? E’ passato tanto tempo.
Il finto ubriaco esegue la solita piroetta. E’ stato ieri.
Che dici?
E’ morta ieri, ieri! Stavo dentro il vagone della stazione, nel binario morto, ci sto da quando sono uscito di galera. Però ieri mi passa un senso come un fulmine! Corro veloce dietro quel fulmine, e lì, lì all’osteria me la stanno portando via, la spingono nella cassa, spingono, a furia di forza e bestemmie. Lasciatemela stare, lasciatela.
Non l’avevi mai vista da quando eri uscito di galera? Perché non sei andato da lei?
Non so niente, non cerco niente, io sto chiuso tra la ruggine e i topi del vagone, sto sul molo da quando sono uscito di galera, mangio quando posso, e ballo su un piede.
Chi lo capisce uno scemo? Nessuno t’ha detto ch’era malata? Era malata quando sei uscito. Eppure c’è sempre qualcuno a cui piace portare le belle notizie. Nessuno t’ha detto di lei uscendo di galera?
Non bisognava chiuderla, lì dentro. Io l’aspettavo al molo, un giorno viene al molo e mi tende una mano, pensavo.
Tenderti la mano, avvicinarti? Puzzi di escrementi di topo.
Sto lì, tra le lame del mio vagone, ghiacciate, roventi, su un binario senza strada, o sul molo, a ballare, aspetto. Dopo dieci anni di galera. Lei verrà, sempre bella, sempre lei, la stessa. E io a dirle, guarda, guarda, ballo per te, su di un piede, Aida, sei contenta?
Veniva a trovarti in galera la tua Aida, tonto?
Non mi dicevano niente. Ridevano se chiedevo di lei. Chi? Aida? Ridevano. Io m’infilavo nella coperta, e dicevo, sto male, sto male, ho la febbre. Ridevano. Chiedevo alla guardia. Aida? Chi? La guardia rideva, è bella? A te sono venuti i capelli bianchi invece, rideva la guardia, ti sei guardato, tonto? E dire che i tonti non invecchiano, diceva la guardia mentre rideva e sgomitava gli altri. E’ bella? rideva la guardia. Bella davvero? Continua a grattarti i pidocchi, tonto! Mi gratto, mi gratto, ho la febbre. Hai un occhio nero, te l’hanno fatto i pidocchi? Sono stati i tuoi compagni di cella? T’hanno abusato, t’hanno picchiato? Aida, chiedevo io. Guardate, sto su un piede, sto sull’altro, sono un chiodo in terra, sono una trottola nell’aria. Nell’ombra quadrata del cortile, o mentre si distribuisce la minestra, sto su un piede. Sta’ attento, stupido! Il muro e le sbarre girano, un ballo, il battere dei cucchiai sulle gavette è il ritmo. Ridono, allungano un calcio, ma io buco l’aria o la terra, quando voglio, posso farlo su un piede, il cielo, o la terra, è lo stesso, posso farlo su un piede.
Poveretto!
Non si sta male in cella. Però non dovevano portarsela via Aida, non dovevano.

La pazzia è come l’amore. Anzi dev’essere proprio un amore. La maga parla a vanvera quando le portano pane, e vino appena spillato. Si distende sulla sedia in cerca d’una comodità, allunga le gambe come una marionetta, sgranocchia, beve e straparla. I pescatori sono venuti per sapere se si pesca domani, la maga lo indovinerà, per sapere se la mareggiata sfilerà a ponente, e si esce a pescare. I pescatori sono venuti a parlare. Lei s’infila una mano tra i capelli di stoppa, se li arruffa, lei indovina, si pesca, sicuro, domani. Straparla. Ha la testa d’una ramazza, di quelle piantate al vento del gabbiotto di prua per tenere lontani i ladri gabbiani. La pazzia è l’amore, dico. Ve l’ho mai detto, della pazzia di Aida? Aida l’ha ereditata da sua madre. La sapete, la storia? Intanto la maga si lecca le labbra, raccoglie le molliche dalla gonna e le appiccica alla lingua. Le sue gambe si stirano di più, tirate da una forza meravigliosa. Sapete chi è pazzo? Sapete chi l’ha messa incinta, la madre di Aida? E perché gira ancora per le strade quella vecchia, più vecchia del mondo, più vagabonda del mondo vagabondo?
Ancora viva? Qualcuno ci crede, qualcuno no. Così vecchia non può essere.
E’ viva, ed è vecchia come il mondo.
Ma certo, può darsi, le maghe sanno tutto, sorridono i pescatori. D’altronde sono lì per questo, per sapere ciò che sa una maga, ed hanno tempo, prima dell’alba, prima d’imbarcarsi o no, prima d’inseguire o no l’onda, di tirare o no reti proibite dalla finanza, è ancora tempo prima di mangiare o no pesce crudo in barca, sfidare la capitaneria e giocarla sull’abbaglio del sole. Ascoltiamo la maga. Tanto, a casa un neonato strilla, le donne strillano con i loro neonati. Tanto, a casa le donne non aspettano più i loro uomini al letto tra colonie di rose, inventate, confezionate da sé. Una volta, belle o no, quelle donne erano femmine. A casa, le donne sposate diventano vecchie prima del tempo, troppo vecchie per aspettare i loro uomini, troppo vecchie per aspettare. A casa, un neonato nato per sbaglio strilla per fame, e non lo sazia nulla, a casa i figli grandi hanno già il labbro ombreggiato di peluria, già non ascoltano, già tornano sconvolti da notti e strade cittadine con le piume arruffate, e nessun padre può accarezzargliele. A casa le donne non hanno mai tempo, da troppo tempo. Meglio ascoltare una maga.
Quello che non sapete è che la vagabonda è stata pazza e vagabonda per amore d’un uomo.
Le maghe lo sanno, sanno tutto, ripetono i pescatori convinti. Sono pescatori di frodo o no, secondo il tempo, secondo il posto e l’occasione in cui avvistano pesci e uomini, di frodo o no secondo i fondali sotto la paratia d’una barca.
E’ successo una notte di luna, una sola notte. E’ stata la luna.
La luna non mette incinta nessuna! ridono i pescatori.
E’ stata la luna!
Le maghe lo sanno.
Non è la luna a far montare l’acqua certe notti?
Vero, e chiama i pesci in superficie.
Fa montare il pesce neonato come una schiuma da fondali ribollenti.
Vero.
Non è la luna a gelare l’onda le notti di agosto? A strabuzzare in cielo rossa come un occhio d’epilettico? Io lo so, la luna! E’ sempre la luna a cantare con la voce delle sirene in mare.
Vero, la luna…
Luna piena, notte senza luna, sempre colpa della luna, ci sia o non ci sia. Sale la marea con la luna, la maga si batte il ventre.
Anche i pescatori si toccano il ventre, e ridacchiano.
Io la so, la madre di Aida e uno di passaggio, uno sconosciuto, uno che diventò pazzo e vagabondo come lei subito dopo. La luna fa effetto, e il mare trabocca. Luna d’agosto, né lui né lei potevano resistere. Non si conoscono, non c’era tempo, non ce n’era bisogno. La luna non permetteva. La luna non permette. Soprattutto la luna drogata d’agosto, la luna rossa d’agosto. Ogni desiderio è già amore, è suono di chitarre che non vogliono smettere all’alba, tra spiaggia di sabbia e strada sabbiosa.
Ma lei era già pazza e vagabonda?
La maga deve riflettere. L’amore è pazzia. E quella pazzia non è una malattia anche se rende rabbiosi o impotenti come una malattia, languidi o cattivi, stupidi come bambini, e insofferenti come bambini. E’ così l’amore, la maga lo sa, lei ci lavora con amore e malattie. E lavora con l’odio e la voglia di denaro, odio da far esplodere il mondo, e denaro da scovare, truffare, gettare in faccia. Ma, in fondo, lei pensa, tutto è amore e malattia, amore andato a male come la pazzia. Ci ride dentro. E’ contenta quando riesce a ridere dentro. Si gratta il capo con la mano libera, mentre con l’altra porta alla bocca un mozzicone. Strappa un morso, sputa un osso d’oliva. Era già pazza la vagabonda? Diventò pazza per amore. Perché me lo domandate? Però, pensa, l’amore è una pazzia che cresce con noi, pazzi e vagabondi, con la pelle, le ossa, una maledizione, una fattura come ne ha fatte tante, una convulsione che ha mandato a tanti, che ha mandato a se stessa. Si gratta ancora il capo, e ascolta per un momento le folate di gelo che turbinano fuori. Domani si pesca? Fiuta, arriva fin lì l’odore del mare arruffato. Chissà se davvero all’alba partono le barche. Nessuna maga lo sa, e nessuno sa da dove viene la pazzia, dalla luna o da cosa, dove s’impasta, e a cosa, perché si diventi pazzi, ci sia o non ci sia la luna. Quella donna, la madre di Aida, studiava a scuola, poesia o matematica, e d’un tratto la luna le toglie ogni studio e cervello. E’ l’amore quella pazzia? Però, il filtro d’amore è la fattura più richiesta a una maga, la più pagata. Dopo, solo dopo, viene la iattura dell’odio e della vendetta da mandare. Ma è la fattura d’amore quella magia che le maghe non sanno mai fare. Chissà se partono le barche, domani. Chissà se partono o il vento spazzola l’acqua, se si resta sul molo come stoccafissi, a guardare l’orizzonte e bagnarsi di vento, chissà. Forse, se non partono le barche, è importante sapere se era pazza, la pazza e vagabonda, o se una poesia o un’algebra l’avevano fatta impazzire, o un uomo, uno sconosciuto, un pazzo e vagabondo come lei, è importante saperlo domani quando si guarda l’orizzonte e le dita si muovono incoscienti a riparare le reti. Debbo dirvelo? Io non so se una poesia o un’aritmetica fanno impazzire, non so se si può impazzire guardando il mare e intessendo una rete, non so se il suo amore era pazzia, se è tutto pazzia, però… però… io la sento, la sua pazzia, mi scuote, una convulsione, un vento di nord, mi riscalda come uno scirocco, mi piglia come un pesce alla rete, mi fa bollire come la mareggiata di stanotte, come il pesce neonato che viene a galla certe notti, mi fa urlare come il vento di stanotte. Chissà se porta tempesta domani. Mi fa montare come la marea della luna, mi fa nuda e aspra come uno scoglio dopo la marea, viscida d’alghe, scoglio scivoloso, pericolo.
Sei tu la pazza! ridacchiano.
La luna d’agosto fa certi scherzi! Lì, sotto la luna, una notte, la donna e l’uomo, come all’inizio! Destino! Per forza doveva essere così.
I pescatori si rigirano il pane in bocca, lo inumidiscono con vino, lo tirano giù per la gola, fino allo stomaco. Non capiscono. La luna combina le nostre vite? Ci gioca?
Così è.
Chissà. Però le maghe sanno tutto.
Una maga conosce le pazzie, belli miei, i misteri, il cuore, il vero mistero. Conosce le magie, le buone e cattive. C’è bisogno di magie. Una maga sa che frulla nell’aria, che poteri, che segreti. Quella donna, la madre di Aida, quella notte, è di fronte alla sua luna, luna enorme in cielo e rossa di fuoco. La luna ha deciso, la luna è strana, una donna pazza e vagabonda e un marinaio quella notte.
Ha ragione, mormorano. Qualcuno ha portato cozze, setacciate alla sabbia, hanno il sapore del mare, sapore rivoltante e lascivo di bave, tatto liscio di corazze tra dita, sfuggente di capelli d’amante. Le unghie si feriscono ad aprirle, e le labbra soffrono a rubarne il corpo dal guscio, i denti tintinnano sulla corazza. Sono venuti per questo, i pescatori di frodo, per mangiare e bere. Per istupidire di lune come una vagabonda sulla via. Il temporale gira ancora in cielo. E domani? Il cielo rimescola, e stride come un tonno infilzato dalla ferita. Vogliamo sapere, scoprire, come quando s’avvistano, si scoprono i tonni bollire all’orizzonte, e per un attimo si istupidisce. Lì, lì! gridano dalla torretta. Siamo qui per sapere e istupidire. Si va in mare, maga?
Una maga è furba, sa quanto dire, e non dire. La vagabonda guarda il cielo, il cielo di giorno è vuoto, eppure la notte è pieno di pianeti, di stelle. Non fa impazzire questo?
Si va in mare?
Domani si pesca, se si va, oppure si pensa all’amore sotto il guscio d’una barca, con la pioggia che canta sul mare. Si pesca domani, se la pioggia non rovina le barche appena dipinte, e prova il loro catrame. Domani si riparano reti, o si va a gettarle in acqua. Non c’era nessuno quella notte della vagabonda, e la luna le porta il suo marinaio. Cos’è? Un regalo, una beffa? O un esperimento? L’occhio d’una pazza, pieno di luna e no, e l’occhio d’un marinaio scuro del temporale che viene o non viene, vuoto del sereno che verrà o non verrà. Uno nell’altro s’incontrano quegli occhi.
Era davvero pazza la madre di Aida?
Ve l’ho detto, matta l’aveva scelta la luna, e lui vuoto come il cielo quando è sereno. Aida solleva la veste, come fa questo vento di oggi. Non c’è uomo che resista a due gambe nude. Se poi ci si mette la luna d’agosto! La luna confonde, e fa ombra di loro due, gambe nude, ventre d’uomo e di donna. Quella veste è una vela, il suo fruscio è la voce del mare. Gambe in aria, luna, voci pazze di mare, stelle, tempesta e sereno, che vengono e vanno. La luna d’agosto è lenzuolo di letto, macchiato di vergine. Il vento non urla come fa adesso, ma sussurra canzoni, e pazzie. Fa tremare gambe innocenti di uomo e di donna. Così è stato, un giro di luna d’agosto. Lui scompare, come ogni uomo, vuoto come il cielo al sereno, scompare come la luna fugge il sole, e lei rimane come ogni donna, sola dopo l’amore, e pazza, forse tra luna e vento a lamentarsi e cantare d’amore, prima del temporale che viene o non viene.
A te è mai capitato, la pazzia?
La maga ride. Che vorreste sapere? Quello che sa solo una maga? Si sparge l’odore di temporale. Sa di sale, perché viene dal mare. Forse verrà il temporale, è destino che venga o no.

Nessuno lo sa, ma la vagabonda è tornata dove ha sgravato, come una pellegrina all’altare del santo. Non è che la vagabonda sia sicura, le strade sono uguali, e ne ha girate tante senza riconoscerle, nelle strade non c’è nulla da cercare, nessun posto dove tornare. Però è tornata. Così dice qualcuno. Fu la notte che un’auto macinò una donna come carne nel tritacarne. Lei è tornata, dice quel fanfarone dandosi le arie. Perché non era poi così pazza da non possedere un cuore, anche se ha abbandonato sua figlia. C’erano cani randagi la notte che è tornata, ululavano come lupi, e la fiutavano nel gelo aperto delle periferie. Qui ho sgravato, pensa la vagabonda. Sta in mezzo alla via, tra le luci che si sgranano in alto, in basso, sull’asfalto lucido d’acqua. E le sembra d’un tratto quello il centro luminoso di tutte le strade. I cani s’avvicinano guardinghi, fiutano, vanno via. Per un attimo le sembra d’aver capito, d’aver risolto il problema, o la poesia, lei che ha studiato. Lì ha partorito, ed è stato l’unico problema, o poesia, pazzo e savio, maledetto e incomprensibile come il mondo e le sue strade, l’unico perfetto e chiaro. Perciò quella fantasia di luci s’intreccia ad altre sull’asfalto, alle rare luci d’auto, se ne va alla via di stelle in cielo, più luccicanti dopo la pioggia. Una confusione prende la donna, come al solito, ma quella volta ci vede bene, vede nella confusione, come se gli opposti si siano fusi finalmente, pazzia e ragione, mistero e matematica, poesia e stupidità. E’ notte come sempre, ci sono solo i randagi, e anche i cani sfilano via ululando, sbirciando, fiutando, ma le luci a terra, in cielo, a file, a grappoli, corrono, s’alzano, scendono sulla strada bagnata, nel cielo rilavato.
Una volta, dice qualcuno, l’ha cercata sua figlia, la pazza e vagabonda, e l’ha vista – o era un’altra? – di lontano, bella che non pare sua figlia. Non s’è avvicinata. Stupore o stordimento di pazza? L’ha vista, sua figlia, assorta sull’orizzonte, alta sopra un cassone del molo, i piedi nell’acqua come una sirena, e i capelli regalati per sempre al vento. Ma era lei? La vagabonda ha un dolore, non vuole che Aida, sua figlia, sia una sirena. Invece Aida ha il corpo già teso al tuffo, a sparire come una sirena nell’acqua. La vagabonda non vuole che Aida sparisca nell’acqua come una sirena. No, no, balbetta la vagabonda. E’ ubriaca o sobria? E’ il senso meraviglioso dell’ubriachezza? La vagabonda ricorda certe pareti murate agli occhi, ricorda graffi, scritture, ogni crepa, è l’ospedale. E’ un ospedale? Uno sbava in un angolo, uno fa ginnastica sbilenco, uno fischia una canzone inventata, due giocano a carte senza conoscere il gioco, un uomo in camice ghigna, smanetta una diavoleria in mano, qualcuno malato guarda fisso nel muro – per questo è malato, che ci vedrà mai in quella sporcizia di muro? – Forse la vagabonda ha mentito e recitato per avere un posto dove dormire e mangiare, un letto e un pasto caldo, un calore per scaldarsi lo stomaco, così gelido da quando ha sgravato. Oppure l’hanno trascinata a forza. Ricorda, ci sono uomini e donne che girano in tondo tra quelle pareti scrostate, sono mezzo nudi, scarmigliati, la toccano, la stringono, la graffiano. Pillole e siringhe, elettrodi nel cervello, muri. Strabuzza gli occhi per farli contenti, sì, dice lei, dice sempre sì. Elettrodi sul capo rasato, fuori la lingua. Strabuzza gli occhi, si, dice lei in testa. Io ho partorito, una volta, pensa, è stato in un posto dove tornare. Strabuzza gli occhi, si, dice mentre la legano, impauriti. Ridi e strabuzza gli occhi, si dice. Numeri, immagini, suoni, odori, e quell’essere che nasce giallo e scuro come la notte sotto lampade elettriche, rugoso come i muri delle periferie, come i muri dell’ospedale. Non voglio che tu tu sia una sirena del mare. Muri e inferriate, pillole e scosse elettriche che tagliano il cervello, un letto, un pasto caldo, vino e strade. Tu, Aida, non sei una sirena del mare. Parole senza senso, parole d’ospedale – è un ospedale? – grida senza ragione, echi e tagli di sole tra ferri. Tu non sarai mai una sirena. Forse la vagabonda vorrebbe avvicinarsi. Però d’un tratto la sirena fa un balzo, un tuffo, scompare nell’acqua nera dei moli. Una valanga d’acqua s’alza e sommerge la vagabonda. E’ luminosa. O sono i fari di una macchina? O sono le stelle più brillanti dopo la pioggia, che le cadono addosso?
La vagabonda è tornata dove ha partorito, insiste qualcuno, s’è seduta a gambe larghe per terra, in mezzo alla strada, quasi a sgravare un’altra volta, e un’altra volta ha ansimato, urlato. Le fitte si susseguono, lei caccia il fiato tra una fitta e l’altra, forse beve da una bottiglia mentre getta un urlo, un altro, con una passione. Lei è tornata, e questo una pazza non lo fa, non lo fa una vagabonda. I cani ululavano appresso a lei, pazzi davvero di paura e amore. Poi passò un’auto come un tritacarne.

Mara c’era quella sera in osteria, sera d’estate, di sudori e zanzare, di radio bollente su note di musica e bollettini del caldo. Sera d’estate appiccicata, e senza scampo. Mara era lì, una bambina a cui nessuno poteva tendere una mano per il rischio di farsi mordere. Raggomitolata sotto un tavolo, a guardare sua madre, se voleva, a fare lo sgambetto a chi passava se voleva. Sua madre era al solito, al centro della stanzaccia, come una regina. Aida, qualcuno ridacchiava, Aida, qualcuno gemeva, Aida qualcuno urlava, Aida. S’asciugavano l’ennesimo sudore con il dorso della mano. La radio scottava, parole che non arrivavano in testa, la musica arrivava, quando attaccava a tradimento, trapanava il cervello. Un marinaio, uno mai visto, nero come la notte, aveva portato dalla sua nave, dalla sua tana di topo, un’armonica. Suonava sulla radio, in controcanto, perché la musica arriva al cervello e non si arresta, suonava controcanto e poi partiva per note proprie, di topo intanato, di ribelle, d’ottuso, note provenienti da mari deserti, e sentori chiusi di stiva, di motori e oli gocciolanti, note di buio tra notte e cabine. Gli occhi brillano, al nero marinaio, come le stelle che non ha mai guardato dal ponte di prua – che se ne fa un macchinista di stelle? – L’armonica suona, trascina nella sua tana di topo. Solidifica. Anche mosche e zanzare stordite, anche il vino come ferro rappreso nei bicchieri. Anche muso di porco ha lasciato un conto pagato sul banco, e non stende la mano ad arraffare, s’è mezzo accasciato sul cassetto dei soldi aperto. Allora Aida si alza, Mara la guarda. E’ un torpore di danza all’inizio. Si spoglia. Pare che ripeta gesti d’un mito, eppure sono gesti usuali, spogliarsi, vestirsi, gesti senza moto come il mondo di quella sera, come la storia più antica. Mara segue ogni gesto, il minimo movimento del dito, o degli occhi, sente ogni fruscio di vestito o di carne. Anche il battito del cuore di Aida. Mara spia dal suo nascondiglio. Aida si muove, un ballo accennato, una sofferenza. Si toglie la camicia, ha seni perfetti. E’ così bella Aida da far male, Mara inghiotte una volta, due volte. E’ bella Aida, nuda, lucida di sudori. Si muove appena, ma ogni moto è già danza, non può essere altro. E’ favola. Aida è nuda, come ogni donna nuda, ma non è uguale a nessuna donna. Si muove come nessuna donna. Il suo moto ondeggia tra carne, travasa da muscoli ed ossa. Continua, non finisce. Mara ha un nodo di traverso alla gola. Aida s’avvicina al nero, gli bisbiglia, o è soltanto il suo odore, il suo sudore a parlare, i suoi occhi. Al suo comando l’armonica s’impenna. Nessuna stiva può chiudere uno schiavo, nessun mare, nessun motore assordare, asfissiare di nafte, nessun buio può chiudere gli occhi, e nessuna stella sul mare sorgere invano. L’armonica impazzisce. E’ acuta, troppo acuta, scoppia i polmoni a suonarla, assorda ad ascoltare. All right, all right, si dice il nero, più musica, most, most, ahighest, nero, più musica, schiavo, più musica, uomo. Balla, Aida, mugugnano a musica, oppure è lo strascico d’una nota tra labbra e armonica, tra bocche e cervelli. Balla, Aida. Certo, lei ha iniziato, e non finisce. Mara vorrebbe che finisse, basta, ti prego, mi fa male. Il corpo di Aida invece s’inarca, si stende come la corda di un arco, e come la corda di un arco, vibra, dopo il colpo. A tempo di musica, nessuno la ferma. All right! Non ci sono schiavi, dai, suona, balla! Aida! I suoi seni ballano, le sue gambe, le sue braccia, il suo ventre. Il suo corpo si fonde alla musica, all’aria, ai vapori dell’alcol.
D’un tratto si ferma. Anche l’armonica. Il nero è crollato. Sei libera, Aida. Sei aria nell’aria. Tutti si fermano, come una foto. Adesso il corpo brilla di sudori, immobile nella sera d’osteria. Mara è ancora lì, sotto il tavolo, sotto le gambe d’un avventore, basta, basta, morde un polpaccio che le è a tiro. L’uomo impreca, ma non reagisce. Mara stende le gambine sottili come spago, intrecciate di tendini e muscoli come spago intrecciato, abbandona le braccia, la testa – i capelli sono uno straccio sul sudicio del pavimento – poi tutto il corpo. Balla ancora Aida, pensa per ultimo prima del sonno. Ma l’ultimo pensiero prima del sonno, si sa, non ha coscienza e ragione.
Adesso Mara si sporge pericolosamente dalla finestrella, tutta basilico e menta. Il mare sotto di lei è un piatto d’acqua, svaporante come una minestra per malati. E’ caldo, è estate come nel ricordo. Mara si sporge di più. Da tre giorni il suo uomo non torna, forse l’ha lasciata, forse è morto, o s’è scordato di lei sul letto di un’altra. Com’è facile morire, tornare e non tornare. Però Aida non muore, lei è nell’aria che non muore, balla e scioglie nello scirocco che torna e non torna. Mara è scappata via da sua madre tante volte, è tornata, non aveva nessun altro posto. E’ salita sulle scale dell’ammezzato. Ecco, è davanti alla porta di sua madre, ma senza rumore, senza neppure respirare. Una volta sente Aida parlare a un uomo. Forse lui è ubriaco. Lei gli dice una dolcezza. Mara è dietro la porta, ha il coltello in tasca, glielo ficco in pancia, a quello, pensa senza respirare, gli apro la pancia come una sardina sotto sale, chiunque sia. Non si sente che dice lui, la sua voce è musica come l’armonica d’un nero, così sembra dalla porta chiusa. Mara ascolta dietro la porta, ha il coltello in tasca, ma è inutile. Diventa cattiva, senza motivo. Mara quella volta si gira e se va via, forse dovrei aprire la pancia a te, Aida, forse ci sono ancora io lì dentro prima d’essere nata, quando non avevo un coltello nel pugno.
E’ facile tornare e no. Mara si sporge dalla finestrella. Però il suo uomo non torna. Ogni volta quando torna lui sbatte la porta, fischietta, secondo l’umore, oppure si getta intontito d’alcol e bustine. Tutto passa come l’acqua su una spiaggia, soffoca come una sera d’estate. Se il suo uomo è intontito, però le piace spogliarlo come un bambino, e metterlo a letto, come un bambino. Meglio se non torna. Rigira tra le mani il suo coltello. Taglia per rabbia una ciocca di lunghi capelli, la getta al vento, all’aria dove s’è sciolta Aida. Il mare s’appiattisce per un vecchio sole, si perde lontano tra vapori. La sua ciocca si divide, capelli ondulati, forse arriva sul piatto d’acqua e vapori, forse affonda invisibile come reti di pescatori, s’incaglia come reti gettate a predare. La ragazza sporge il busto. Menta e basilico le soffiano sulle guance, gemono asfissiati. Mamma, pensa Mara d’un tratto. Non l’ha mai chiamata così. Sai cos’è successo ad una ragazza in riformatorio? Posso raccontartelo ora che sei morta e sai tutto come i morti, dirlo a te che voli nell’aria, non morta, e non muori. Te lo dico, hanno ficcato un collo di bottiglia in mezzo alle gambe a quella ragazza in riformatorio. E’ stata il capo branco, quella che era lupa e maschio, gliel’ha ficcato fra le gambe. Per amore, delirio, o prepotenza? Mamma, tu conosci queste cose, e le altre. L’ha fatto di notte. S’è alzata dal letto come un fantasma – amore, delirio, violenza? – e s’è coricata nel letto di quell’altra, aveva la bottiglia in mano, rubata o pagata alle guardiane, e gliel’ha ficcata tra le gambe mentre le mordeva la bocca. Di notte non si fa rumore in riformatorio, non si urla, e non si fa rumore. Quella ragazza non ha fatto rumore mentre la lupa le infilava più a fondo la bottiglia, più in fondo, mentre la mordeva rabbiosa. La bottiglia si rompe, diventa scheggia, diventa sangue, calore, più calore. La lupa non s’accorge, o se ne accorge e le piace di più. Forse le piace farsi scolare quel calore liquido sulle dita. Come amore, secrezione d’amore, delirio. Tu lo sai, mamma, lo sai, com’è cattiva la notte in riformatorio, i respiri di donne, tutte donne, nella stessa stanza, il loro calore, il loro sudore, i loro sospiri, il loro fuoco di notte. Le schegge di vetro tagliano, la carne si lacera, spingendo, spingendo, ancora, più a fondo. Lei spingeva, spingeva, mamma. E il calore le bagnava la mano, bagnava le gambe della ragazza, inzuppava le lenzuola. Nessuno ha urlato, quella notte, e nessuna notte, neppure una parola, o un rumore, neppure un lamento. La notte è muta in riformatorio, mamma, lo sai. Come te, muta, come i morti, e quelli non morti. La notte è così. Il sangue scorre sulla mano della lupa, lei si lecca le dita, le ficca in bocca alla ragazza. Soltanto la mattina, quando s’è fatta luce, quando i primi suoni e le prime voci si sono potute sollevare sul dormitorio, soltanto la mattina, quella ragazza ha fatto un grido, e l’hanno portata in infermeria. La lupa intanto riposava, occhi aperti, come sempre. Sangue, delirio, violenza, mentre ricucivano con aghi, in fretta, in fretta, bestemmiando. Gli aghi entravano profondi, come le schegge di bottiglia, cucivano per riparare a quelle schegge, ciò che non si può riparare. Riparare fa male, mamma, come vederti ballare e scioglierti all’aria. Poi le hanno fatto l’iniezione, alla ragazza, e l’hanno addormentata. E’ bello dormire. Mamma, vorrei dormire. Come dormi tu, da qualche parte sotto terra. Bello squagliarsi nell’aria di scirocco. Forse un giorno ti cerco, cerco il tuo nome fra le tombe del comune, quelle abbandonate, quelle di cui nessuno si occupa fino a che gli operai tirano fuori e buttano via quello che resta, fradicio di fango. Mettono altri mattoni e cemento, altri nomi e altre tombe del comune. Forse non troverò nulla. Perché sei vento del sud. Non è male però rimestare nelle tombe vecchie del comune, non è male se metteranno un cadavere finalmente al tuo posto sotterra, non era cattiva la capo branco, è male che tu sia vento nell’aria.

(Continua…)

Mario Condorelli

E' nato a Catania nel 1977. Laureatosi in medicina lavora con responsabilità dirigenziali nel settore della Sanità. Ha esordito con la narrativa nel 2000 e ha quindi pubblicato romanzi molto apprezzati dalla critica.