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© Enzo Sellerio, Cefalù, 1958

Sicilia 1958: vite improbabili di una puttana

 

I ricordi dei vecchi vengono su come pesci morti dal fondale, a pancia all’aria, squarciati dalle bombe di frodo. E’ male, pensa la vecchia serva di Aida, male pescare con le bombe, è male vedere i pesci affiorare sventrati, fioritura di morte a pelo d’acqua. Per fortuna un pesce è solo un animale, anzi nemmeno un animale, e non è peccato sventrarlo. Però quella fioritura di morte è male per i vecchi.
Aida… ricorda la vecchia serva. Ed è male ricordare. Aida donna, Aida uomo, Aida schiava e padrona, regina di favole dove possono le favole, Aida malata che sporca di sangue e catarro il cuscino, di orina le lenzuola, dove non possono le favole. Un male brutto, un male ai polmoni, l’ha fatta morire, ma lei non ha mai dato un lamento, ricorda sempre agli altri la serva. E dentro di sè, certo era istupidita dalle medicine. Nessun lamento, anche quando il male, deve essere stato il male, la gonfiava come un sacco, e le sbriciolava le vertebre che non reggevano, le tagliava i nervi come fili d’un pupazzo. Aida è stata cane inquieto, e cane selvatico, ricorda la vecchia, è stata occhio triste e muto di cane malato, più triste di qualsiasi uomo malato. E’ stata stella del cielo, se possono le favole. Era la serva a truccarla ogni sera per un regno, come aveva fatto la prima volta, come fosse la prima volta, e restava a fissarla allo specchio, le brillavano gli occhi che non brillano mai ad una serva. Certi ricordi però sono pesce pescato di frodo, pesce mutilato, pesce da buttare al pasto d’altri pesci, da non vendere in pescheria, da non cucinare per la fame di bambini affamati. Fioritura di morte. Per fortuna la serva è viva, i pesci morti ondeggino pure con gli intestini di fuori, lei è viva, salda sulla terraferma, e non galleggia con la pancia sventrata.
La serva è viva, tra la noia ed il buio di ogni vecchio, si siede in cortile al sole sparuto, cerca il sole nel cortile dove il gelsomino stringe i polmoni, gelsomino di cortili vicini che invade l’aria tenera e la fa spessa, serra il petto prima degli odori del giorno, latte e pomodoro bollito. La vecchia ricorda, e le s’incantano gli occhi di vetro smeriglio, come un tempo. Non sa nemmeno perché, per una fioritura di pesce di frodo.
C’è il cinema, schiamazzano i ragazzi che non vanno a scuola. La vecchia ridacchia, che non ce ne avete madri e padri? Non ne abbiamo, ridono in risposta. Andiamo al cinema, ridono. Chi ve li dà i soldi, malandrini? Ce li buschiamo, ridono. Non c’è più la puttana con te? schiamazzano.
Non c’è più.
Andiamo, andiamo! Non c’è nulla da fare qui!
Non ha nulla da fare anche la vecchia serva. Rimane seduta nel cortile se c’è un minimo sole. Però ha lavorato un tempo. Ha lavorato per padroni, e per Aida, la più forte, la più furba tra i giochi di bambina, la più bella tra donne. E’ mio, sente ancora la voce prepotente di Aida, voglio vedere, voce di bambina e subito di donna, si cresce in fretta tra le viuzze del porto. La più abile a scansare i lavori, arrivo, adesso arrivo, ho finito, ho già pulito i tavoli. La prima a correre e saltare, ce la fate dietro di me? Non esisteva muretto o reticolato, io non ho paura, chi mi segue? La prima a ballare ad una musica, radio o fisarmonica o chitarra, organino della strada.

© Enzo Sellerio, Cefalù, 1958

Brava a ballare come a cantare, quasi avesse le note dentro, tra stomaco e sangue, tra gola e cervello. Era la musica a doverle star dietro, le note a doversi correggere sulla sua voce. Il suo corpo era una corda di chitarra, la sua voce era pronta a cantare, la sua schiena morbida. Non è mai stata schiena di serva, pensa la vecchia a proposito. Non eri neppure la più bella, Aida, ma la più furba e cattiva sì, pigra sul lavoro, avida nel danaro. La serva la vedeva crescere, la sua padrona. Cresceva, le vedeva la pelle pian piano incurvarsi sul corpo, curve soffici, le vedeva la schiena snodarsi in movimenti sempre più morbidi, e segreti, non era schiena di serva, certo, le vedeva lo sguardo riempirsi di luci sempre più vogliose e violente. Si rimescolava come i lieviti d’una farina. Era ancora una bambina e già la farina era pagnotta calda che attacca nei denti. Eccola, pensa la serva, nata per questo, per questo e per tutto, padrona, tutto suo da prendere, anche me che sono stata invisibile come una macchiolina sulla sua camicia, piccola come un neo sulle sue gambe, buchetto attorcigliato come il suo ombelico, la sua ombra, o il pezzettino del suo cuore che salta malamente, il capezzolo senza freno dei suoi seni, sono stata sua, come il resto, tutto di Aida.
La serva accarezza un gatto sulla schiena e il maledetto animale s’inarca come faccia l’amore. Aida l’aveva acciuffato un giorno, quel gatto nero, quello o un altro, chissà se ne esce fuori l’anima del diavolo, voglio provare, voglio vedere. Faceva certi giochi di bambina, Aida, certe curiosità, certe scienze, strappare le ali alle mosche e studiarsele, tagliare la coda delle lucertole e osservarle maledire, certi misteri, sconcertare un formicaio per rubarne la caparbietà, dargli fuoco per la disperazione di non capire e veder contorcere zampe e testoline, addomi di formiche, studiare anche quello, tutto di Aida, tutto per la sua ragione. Muso di porco lo fa davvero, torturare quel gatto nero, nero e lucido come una scarpa nuova, anche a rimetterci la pelle d’una mano sotto gli artigli, l’ha mezzo strozzato e azzoppato tante volte, quel gatto nero, quello o un altro. Anche Aida? Tutti cattivi i padroni d’una serva. Vero, muso di porco?
Non chiamarmi mai così, vecchia! Muso di porco non ricorda di gatti e mosche, o lucertole, di schiene morbide, lui non ha tempo, perché ha solo tempo per mandare avanti l’esercizio, far pagare gli ubriachi e i marinai. In cortile ci va solo per raccogliere le spazzature del giorno prima. Non è neanche una vita quella, tutto il giorno infilato in un buco, ubriaco senza bere, poco tempo per dormire e solo di giorno, nessun tempo per spendere i quattro soldi di guadagno. Pigliati un lavorante, gli dicono, ma che ne sanno. Se piglio un lavorante devo tenere aperto per dargli da mangiare. Che mi resta? A me, che mi resta? Certo è brutto dormire di giorno, non vedere mai il sole. Ma alla fine a che giova il sole? ridacchia a volte lisciando il manto del suo gatto nero, storpio d’una zampa. Gliel’ha storpiata Aida. Comunque il sole non fa guadagnare, tengo chiusa la bottega. Invece Aida guadagnava giorno e notte, la maledetta puttana. Lui ne sentiva lo scricchiolio del letto nell’ammezzato sopra la testa, mentre riordinava i tavoli, mentre asciugava i bicchieri per l’ora d’apertura. Non le mancavano mai i clienti. Ma lei è una puttana, pensa, e le puttane guadagnano sempre, e senza sforzo. Se fossi una puttana? Quel gioco lo aiuta a far passare il tempo, sciacquando bicchieri. Muso di porco una puttana! gioca nella mente. Può anche chiamarsi così tra sé, muso di porco, con il nomignolo ributtante che gli hanno affibbiato. Per ridere, e far passare il tempo, far tramontare il sole. L’ha azzoppato Aida il mio gatto, te lo ricordi, grida alla serva seduta nel cortile con il gatto sulle ginocchia.
La serva scuote la testa. Ma forse è solo il tremore della vecchiaia. Pesci morti.
Adesso c’è profumo di gelsomino nell’aria. Non fa nulla la vecchia serva, seduta nel cortile ogni mattina se c’è sole, vive di rendita, piccola rendita di un paio di stanze affittate nell’ammezzato, quello che ha lasciato Aida. Aida per la verità non ha lasciato a nessuno, ma la serva se le gode lei, le misere rendite, dato che nessuno reclama. La figlia di Aida, quella ragazzaccia, non s’è fatta viva, neppure quando sua madre è morta, neppure a reclamare il proprio. Certo, era diverso a casa del suo primo padrone. Lì non mancava niente, e c’era il superfluo. Si poteva anche dare ai poveracci che ogni giorno bussavano di nascosto al padrone. Allungavano le mani per arraffare. Piano, piano, eh, la fame! E vino? Hai vino? Vino no, ti ci ubriachi, va bene, tieni, quello che è rimasto. Ha fatto tanto bene la vecchia, e qualcuno dal cielo gliel’ha reso adesso, nessuno ha reclamato le misere proprietà di Aida. Sono passate a lei. D’altra parte se lo meritava. Chi c’era stato accanto a quella povera malata che non si muoveva dal letto? Chi aveva pulito lei e le sue lenzuola? Era stato difficile, una vecchia sola e un corpo pesante e inerte come un macigno. Ci vuole forza a rivoltarla, e stomaco a ripulirla, a lavarle le piaghe decomposte. Me lo merito, pensa la vecchia, me lo sono meritato, me lo sono lavorato come sempre. Certo, miserie, bastanti appena per vivere, ma la donna è contenta, ha fatto la serva da quando era bambina, ha fatto quel mestiere e ci ha messo tutta se stessa, adesso si gode, se si può, quel frutto di vecchiaia. Erano tre orfane, le sorelle, ricorda, lei diventò serva, un’altra moglie di qualcuno, ci riuscì, e l’altra una mantenuta. Ognuna invidiava l’altra, e si lamentava del proprio. Litigavano sempre, serva, moglie, mantenuta, parabola delle donne del mondo, che non ce la fanno a stare insieme sullo stesso pezzo di terra. Pesci morti. Pesci ammazzati a scapito della finanza e capitaneria. La vecchia serva non sa neppure se sono ancora vive le sue sorelle. Ringrazio Dio. Lo ringrazio, io sono stata la serva, e Dio m’ha dato questa miseria della mia padrona alla fine del lavoro.
Ti rubi, accusa qualcuna.
No, s’infuria la vecchia, non ho mai rubato.
Aida ha una figlia, tocca tutto a lei.
Dov’è sua figlia? Sono rimaste le stanzette sopra l’osteria, e io le ho date in affitto.
In affitto a puttane!
In affitto! Per la figlia di quella santa, se viene un giorno.
Prendi i soldi per sua figlia, ridacchiano.
Io volevo bene ad Aida. Sua figlia no!
Non può essere, una figlia!
La vecchia s’aggiusta con un dito una scarpa, le gonfiano i piedi, e le stringono le scarpe. Le fanno male i piedi, sono dolori di serva, sempre in piedi a lavorare, da serva. Quella ragazzaccia, la figlia di Aida, non somiglia per niente a sua madre, gliene ne ha dati di dispiaceri, a sua madre quand’era viva, ad una santa! Tra riformatorio, e galera. E quando non era dentro, non si sapeva neppure dov’era e che faceva. Non dava conto a nessuno, quella ragazzaccia. Spariva per mesi. A volte te la vedevi tornare, senza preavviso. Appariva d’un tratto sulla porta dell’osteria. Una volta con una cicatrice fresca in faccia, un’altra con una spalla slogata e un braccio legato al collo. E’ tornata, mi bisbigliava Aida. Sì è tornata, e ora se ne va, le dicevo io. No, è tornata, ripeteva quella santa. Esci, mi diceva all’orecchio, fai la spesa, quello che le piace, cucinale, diceva. Eh sì, ma non se lo merita. Non dirlo! Non la pigli per la gola, a quella! Non dirlo! Chissà che pensieri, Mara… mormorava Aida, e serrava ostinata i denti. Eh, i pensieri di quella birbante! le dicevo io. Non la pigli da nessuna parte, dicevo. Avevo ragione io, le serve hanno sempre ragione. La ragazzaccia stava un giorno, due, per riposarsi, o nascondersi, tutto il tempo coricata, con uno sguardo al tetto, e appena le passava, fiutava l’aria come un animale e spariva un’altra volta. La disperazione di quella santa. Figlia storta, come un muro storto che non si riesce mai a raddrizzare. E non c’era muro che la tenesse, muro, o ragione, o affetto di madre, credetemi, dura e storta come un muro storto. Figlia della tempesta, le dicevo, ti ricordi quand’è nata? Il mare pareva arrivasse dentro casa quel giorno, tanto urlava. Il suo urlo si mischiava a quello di Aida partoriente. Non doveva farla, quella figlia.
E Aida? Non faceva niente per raddrizzarla? chiedono le donne dalle finestre.
La serva agita un braccio, muro storto!
Doveva romperle le ossa.
Così le dicevo anch’io. Ma lei non ha mai alzato un dito su sua figlia.
Avrebbe dovuto.
La serva chiede una caramella, avete una caramella? Qualsiasi cosa di dolce? Un diabete strano, il suo. Se non piglio qualcosa di dolce sto male. Ecco, con una caramella va meglio. Se la rigira tra le guance, la prova con i denti d’oro, gli unici che le sono rimasti in bocca di denti. Ecco, va meglio. Cosa avrebbe dovuto fare Aida, quella santa? Ma lo sapete come si tratta con una figlia? Come si tratta con una figlia così?
Anche gli altri tentennano. Una puttana non dovrebbe aver figli. Però… quella ragazza!
La serva fa un cenno. Ricorda d’essere serva. Una serva non parla male dei padroni. Ma, d’altra parte, non si nasconde la verità.
Dov’è adesso sua figlia?
Chi lo sa. Però è tutto conservato, giuro, conservato per lei, finché Dio mi dà vita.
Te la dà, la vita, campi cent’anni, tu e la tua strafottenza, tu e la tua furbizia!
La serva alza una mano contro le donne alla finestra. Poi ridacchia. Adesso la caramella è finita, e lei si sente di nuovo debole. Il diabete! Colpa della malattia. Malattia di padroni, ridacchia dentro sé, rubata ai padroni, di servi che ingrassano a scapito di padroni.
Non dovrebbe fare una figlia una puttana, dicono le donne.
Tutti sapienti con le storie d’altri, ridacchia la serva tra sé. L’ha fatta con chi non doveva, questo è sicuro. Glielo dicevo tra la pentola che bolliva e lo straccio che aspettava, glielo dicevo davanti alla caffettiera che borbottava. Ci sono momenti in cui è più facile parlare. Quell’uomo non è per te, né per nessuna, le dicevo. Quelli come lui, bisogna lasciarli perdere, anche se Dio li ha fatti maschi da innamorare una donna. Lascialo perdere. Non poteva che uscirne un muro storto, da quel tipo.
Chi era?
Uno di fuori.
E poi?
Una serva non può dire tutto. Sì, giovane, sì, bruno e maschio, sì, sì lo sapete. Però era uno di quelli che è meglio lasciar perdere, lasciare alla loro strada.
Perché?
Un giorno li sento parlare tutti e due.
Li spiavi?
Li sento parlare. Sono a letto insieme. Lei gli chiede, che fai di mestiere? Nessun mestiere, scoppia in una risata lui, anzi, sì, un mestiere, la rivoluzione. La rivoluzione, capite? Un rosso, un rivoluzionario, che so. Ma che mestiere è la rivoluzione? Lei gli chiede, la mia colomba. Lo sento serio, lui, quando risponde, è un mestiere, un mestiere come respirare… o amare. Respirare! Sento un trambusto. Chissà che le fa, alla mia colomba. Faccio il rivoluzionario, dice il bellimbusto, perché bisogna respirare, faccio la rivoluzione dovunque ci sia una rivoluzione, e qualcuno che non capisce le rivoluzioni. Perché lì bisogna farlo, come un missionario tra chi non ha la fede. Tutti hanno una fede, dice la mia santa, la mia innocente. Lui ride, e c’è ancora un fruscio, chissà che le fa. Sei comunista? ansima lei. Lui sta ancora ridendo, belli, certi comunisti, rivoluzionari a parole, come un ragazzino che desidera la sua prima femmina e ne ha paura. Non sei comunista? Lui non ascolta, quei tipi non ascoltano, lo capisco anche se sto dietro la porta. Stavo per entrare e gettarlo fuori dal letto, solo guai, Aida, lo butto fuori io, e se non ce la faccio chiamo aiuto, te lo faccio buttar fuori a calci! Perché non l’ho fatto? Ma la mia santa doveva capire, cos’è una rivoluzione? Voleva capire, come quand’era bambina e voleva spellare il gatto nero, questo gatto vecchio come la Bibbia, questo gatto che forse è suo figlio, di quel gatto nero, o suo nipote, sempre nero, questo gatto zoppo. Come quando strappava le ali alla mosca, no, non per cattiveria, non era cattiva. Ma questa volta è proprio lei la mosca, povera Aida, e ci rimetterà le ali. La mia innocente voleva capire. E respirare anche lei! Spiegami, diceva lei a lui, ma spiegami bene come si fa ad un bambino. Lui non sa che dire, poi inizia a parlare come un prete. Lei doveva essergli rannicchiata vicino, per non perdersi niente, né una parola, né un calore di quel porta guai. Lascialo perdere! pensavo io dietro la porta. Non parlare con lui! Uno con le bombe in tasca, e le bombe nel cervello. Non farlo parlare di sé! Io conosco il mondo, una serva lo conosce, non farlo parlare. Lui cerca di spiegarle, sento dietro la porta, ma dev’essere imbarazzato, ridacchia, poi è serio, come un prete, poi ridacchia un’altra volta, la rivoluzione è la femmina della vita, questo puoi capirlo, quella che uno vorrebbe e non s’incontra, quella femmina così e così come si vuole, magari con il naso storto o gli occhi scialbi – che si può fare? – magari donna d’altri, magari traditrice, magari senza amore né per se stessa né per nessuno. Magari ci tradirà, dice quello con le bombe in tasca, però abbiamo amato, abbiamo respirato con tutti i polmoni. Per una gente sfruttata e abbandonata, anche per la gente che non capisce come te. Ma tu capisci invece! lui ride. E se non capisci tu, dice, se tu non capisci, io davvero sto sbagliando, e m’ammazzo, ride lui, ammazzo i padroni e m’ammazzo. Ride troppo quello lì, è una risata come monete sonanti, una risata che mette allegria purtroppo, devo dirlo, mi veniva una tentazione, anche a me, un’allegria contagiosa. Come il colera. Una volta segnavano le porte dov’era stato il colera. La serva si fa la croce, Dio ce ne scampi. La mia padrona però sta zitta, sapete, zitta e ferma adesso, io dietro la porta sentivo, Aida è una statua, capiva, sì capiva, di più, peggio, conservava quelle parole dentro il marmo, anche quell’allegria, che il colera se la porti nelle fogne con la sua merdina verde. Aida non rideva.
Le aveva preso il cuore il giovanotto, certo, pazzo e ribelle, bello e pazzo, è quell’amore che piglia giusto il cuore! ciarlano le donne alla finestra.

(Continua…)

Mario Condorelli

E' nato a Catania nel 1977. Laureatosi in medicina lavora con responsabilità dirigenziali nel settore della Sanità. Ha esordito con la narrativa nel 2000 e ha quindi pubblicato romanzi molto apprezzati dalla critica.