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© Alfredo Musumeci
© Alfredo Musumeci

Jettu uci senza vuci è il titolo della nuova silloge poetica di Francesco Foti. Battuta di avvio di un viaggio vernacolare in compagnia dell’autore, il titolo è caratterizzato da un ossimoro concettuale in cui un significante, in rima inclusiva (uci/vuci), accompagna un significato, paradossale calembour fonosimbolico (l’«urlare sottovoce»), che si fa veicolo delle malie iniziatiche con cui l’autore ci vuole irretire. Il gioco di pieni (Jettu uci) e di vuoti (senza uci), che prende il suo avvio con la titolazione stessa, si perpetrerà anche più avanti, con un ironico e a volte risentito rimando ai vuoti e ai pieni che accompagnano, limano e arricchiscono l’universo dell’autore. Vuoti che però non riguardano la lingua adoperata in questa silloge: Foti utilizza un dialetto sanguigno, in cui le parole stesse sembrano emergere dalla carta stampata per divenire materia pulsante. La densa lingua etnea, così come la definisce Grasso nella sua prefazione paragonandola al magma fondente, diviene balsamo primigenio e corroborante con cui lenire le piaghe e le consunzioni di una vita moderna, frenetica e inspiegabilmente colma di vuoti. La koinè dialettale viene inoltre arricchita dall’autore grazie all’innesto di termini moderni che vengono dialettalizzati nel più assoluto rispetto della lingua delle origini. Tale incremento linguistico può essere definito quasi una sorta di mistilinguismo religiosamente profano, poiché grazie ad una commistione rispettosa di termini antichi e lemmi correnti dialettalizzati, l’autore opera una modernizzazione che non inquina o dileggia l’idioma jonico, ma lo arricchisce e illumina, facendolo risorgere a nuova vita, non solo come codice originario, ma come verbo pulsante del vivere quotidiano e che nella quotidianità interiore ci accompagna. Foti è dunque protagonista di un vero e proprio bilinguismo in cui il Siciliano è la lingua primigenia del pensare e del sentire e l’Italiano, lingua della formalità, superstrato culturale del vivere esteriore, si accosta al dialetto etneo, adempiendo a quella ricerca di coesione con la realtà che è il perno attorno a cui ruotano le liriche dell’autore ripostese. Egli non utilizza dunque una lingua arcaica, fatta di suoni e parole che si discostano completamente dal linguaggio d’uso quotidiano, ma un dialetto rispettosamente pieno di innovazioni, così come a suo tempo fece il poeta di Bagheria, Ignazio Buttitta, autore di versi importanti che rimarranno nella storia della nostra letteratura. In particolar modo, Foti sembra tenere a mente, costantemente, l’insegnamento tramandato da Buttitta nella famosa lirica risalente al 1970, Lingua e dialettu, in cui il compianto poeta definisce il dialetto la grande ricchezza addutata di patri, cioè ricevuta in dono, o meglio, in dote, dagli avi.

[…]
Un populu
diventa poviru e servu
quannu ci arrubbanu a lingua
addutata di patri:
è persu pi sempri.
Diventa poviru e servu
quannu i paroli non figghianu paroli
e si mancianu tra d’iddi.
[…]

[…]
Un popolo
diventa povero e servo
quando gli rubano la lingua
ricevuta dai padri:
è perso per sempre.
Diventa povero e servo
quando le parole non figliano parole
e si mangiano tra di loro.
[…]

Il dialetto, dunque, come lingua dell’adesione e della ricerca della verità e in questa silloge la realtà, fondamento e tema portante dell’opera, è la verità dell’autore. Tale ricerca non si traduce in una visione univoca e monocentrica, ma in una interrogazione continua, un gioco di rimandi e di incastri da cui emerge una poliedrica forma vivificatrice. La lingua adoperata da Foti è concreta, sanguigna e diviene spesso sanguinolenta, poiché in alcuni casi le parole sembrano essere state strappate dalle proprie corde vocali dall’autore stesso per essere offerte in pasto ad amanti e detrattori. Foti si offre al lettore e trasuda verità, instillando in ogni parola ironia, dubbio o dolore, come nella lirica di pag. 66:

trentatrì anni
comu a Chiddu dda
’nchiuvardatu nt’u lignu
videmu si è ura
c’abbrivisciu macari iù

(trentatrè anni / come Quello là / inchiodato sul legno // chissà se è giunto il momento / anche per me di risorgere)

I giochi di parole e i bisticci semantico-espressivi, celano e al contempo svelano i travagli di un ragazzo che si ritrova adulto e che riflette sul trascorrere impietoso e imperioso del tempo, in una intensa e ragionata meditazione sul vivere. A tal proposito, rivelatrice è la riflessione di pag. 61:

facemu tutti ’a stissa fila
ppi ffari tutti ’a stissa fini
quattru piaciri m’i passai
e autri quattru m’aspettunu
ca poi
tantu
’i manu ’rrestunu leggi ’u stissu
l’occhi annorbunu
l’aricchi ’nsurdisciunu
e n’astutamu
pinzannu
a’ vita
ca puteva essiri

(facciamo tutti la stessa fila / per fare tutti la stessa fine // qualche piacere me lo sono concesso / e qualcun altro mi aspetta // che un giorno / tanto / le mani resteranno ugualmente vuote / gli occhi accecheranno / le orecchie assorderanno / e ci si spegnerà / pensando / alla vita / che sarebbe potuta essere)

Tra i temi portanti della silloge, c’è sicuramente l’amore, non quello ascetico e trasognato, ma l’eros pulsante e primigenio, che si concretizza in versi dal ritmo rituale e deformante in cui la ripetizione di un termine in progressione ritmica ascendente riesce a rendere, quasi come in un rito pagano, il desiderio di possesso fisico dell’amata. Ad esempio, in una sorta di accumulatio ritmica, l’autore, a pag. 53, scrive: “sangu/sangu/sangu/e ancora sangu”.
Possesso fisico e concretezza semantica che divengono quasi cannibalismo sensoriale, come nei versi di pag. 16:

mi piaci accussì
bedda
di vasari
e mmungiri
ma ca
ti vasassi
finu a spurpariti l’ossa
e ti mungissi
finu a fariti nesciri sangu

(mi piaci così / bella / da baciare / e mungere // al punto che / ti bacerei / fino a spolparti le ossa / e ti mungerei / fino a farti uscire sangue)

Parole caratterizzate da una componente libertina, quasi oscena, che riesce a rendere appieno la fisicità corporea. Anche laddove l’amore non si traduce in eros, i versi mantengono una concretezza che diviene esorcizzazione dell’assenza dell’amata, come nel distico di pag. 82:

mi scurdai a to’ vuci
e ’a mia nun mi piaci

(ho dimenticato la tua voce / e la mia non mi piace)

La stessa concretezza semantico-espressiva, la ritroviamo nelle riflessioni che simbolicamente chiamano in causa oggetti che con l’amata (o non più amata) sono in un rapporto di continuità fisica ancorché logica, ad esempio la sciarpa regalo dell’amata, per l’amata stessa, come nella poesia di pag. 90:

’a sciarpa
ca m’arrialasti
nun quadìa cchiù
comu ’na vota

(la sciarpa / che mi hai regalato / non riscalda più / come un tempo)

I testi, spesso disseminati di travagli interiori latenti, si dipanano dolcemente nel ricordo di un amico scomparso prematuramente o nella contemplazione degli eterni e immutabili fenomeni naturali, perpetui moniti che si scontrano contro una società, frammentata e frammentaria, che si avvicina sempre più a visioni apocalittiche e inquietantemente disgreganti. Ed è proprio la luna, con il suo moto perpetuo, che in un gioco di punti di vista speculari, non si leva sopra il mare, ma fa scivolare la Terra sotto di sé. A pag. 102 leggiamo:

acchiana ’a luna supr’u mari
o forsi è ’a terra ca sciddica

(si leva la luna sopra il mare / o forse è la terra che scivola)

Rispetto alla sua prima silloge poetica, queste nuove liriche sono spesso, o meglio, lo sono ancora di più, caratterizzate da un ritmo amaro e intimo, caustico e trasognato; ma non per questo l’ironia, così come in Afotismi, non la fa da padrone. Foti è, prima di ogni cosa, ironico, come nella lirica di pag. 20, in cui l’autore sembra ricollegarsi direttamente a quella saggezza popolare generata dalla sintesi delle variegate realtà culturali che si sono susseguite e intrecciate nel corso dei secoli sul suolo e sui mari della Trinacria. Con un rimando diretto alla paremiologia siciliana, l’autore scrive:

cu n’arrisica
n’arrusica
ma cu troppu voli
nenti acchiappa
sulu ca
cu nun cci havi cascia
n’arrusica mancu si arrisica

(chi non rischia / non mastica / ma chi troppo vuole / nulla stringe // però / chi non ha dentiera / non mastica neanche se rischia)

Foti, è ironico e beffardo nei confronti del mondo che lo circonda, ma è ironicamente beffardo anche nei confronti di se stesso, come si evince dalla poesia di pag. 22:

scrivu canzuni
macari pp’autri cantanti
accussì cu mi voli mali
nun mi po’ ddiri ca
iù m’i scrivu
iù m’i sonu
e iù m’i cantu

(scrivo canzoni / anche per altri cantanti / così chi mi vuole male / non può dire che / io me le scrivo / io me le suono / ed io me le canto)

L’ironia è protagonista anche laddove l’autore confessa i suoi turbamenti e i suoi dolori, anche se già un attimo dopo aver svelato le sue inquietudini, sembra non crederci più nemmeno egli stesso. Così, la sua fervida ilarità e la sua autoironia pungente, lo portano a non prendersi troppo sul serio nemmeno come poeta (o anche questo è un gioco?). Il lemma si disfa e giocosamente si ricrea, appoggiandosi all’ironia, intelligente esorcizzazione di un male di vivere che accomuna ormai tutti, in un monologo globale dove l’autore non è solo se stesso, ma è tutti noi. Il verso diventa così luogo della verità, o meglio non-luogo in cui lo spazio si annulla (ma non il tempo) e in cui operare liberamente una confessione simbolica e mai autoreferenziale.

talìannu
d’arretu ’sta rriti
mi sentu ’n pisci

(osservando / da dietro questa rete / mi sento un pesce)

Quella di Foti è un’esperienza globale, grazie a cui si delinea un universo che sorge e si nutre della sintesi delle pulsioni rivelatrici e delle riflessioni ragionate non sono dell’autore, ma dei mondi che col suo si incontrano, in un gioco di incastri ludici che potenzia e rigenera l’incantesimo tessuto dal poeta, perché, al di là delle mille parole, Foti è poeta e parafrasando le sue stesse parole:

dumani aviss’a studiari
sunu ’ì dui
e nun pozzu dormiri

dumani ’u sacciu
ca è ’na malajurnata
’u sonnu s’arricogghi e m’ammazza
ma ora nun c’è

n’aggiuva a nnenti
appuiari ’a testa
’nt’u cuscinu
iù scrivu

’u vulemu capiri o no
ca n’e pozzu ammazzari ’sti paroli?

(domani dovrei studiare / sono le due / e non posso dormire // domani lo so / che sarà una cattiva giornata / il sonno arriverà e mi abbatterà / ma adesso non c’è // a nulla serve / appoggiar la testa / sul cuscino / io scrivo // lo vogliamo capire o no / che non posso uccidere queste parole?).

Francesca Taibbi

Nasce a Giarre nel 1981. Dopo alcuni anni peregrini nel nord Italia, ritorna a Giarre dove consegue la maturità all'Istituto Tecnico Commerciale. Si laurea in lettere all'Università di Catania discutendo una tesi su "Per l'edizione critica di Storia di una Capinera". Attualmente insegna presso un Istituto Parificato.