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Chanson Turca
di Cristina Annino (LietoColle)

 

Se si dovesse scegliere una colonna sonora per l’Apocalisse, questa eufonia tormentata potrebbe venire fuori dagli ultimi versi di Cristina Annino. Il suo fragoroso Chanson turca (edizioni Lietocolle), grandina sul nostro millennio verità misere e tragiche divenute mediocre consuetudine, trascurata convivenza quotidiana. La potenza atomica del pensiero concettuale, ha per contrappunto e argine l’ironia, particolarmente lieve, giocosa, cristallina, come è stato rilevato in prefazione da Maurizio Cucchi (“Cristina Annino riesce a darci, anche, un piacere estetico”) e in una intervista rilasciata al poeta e critico Nadia Agustoni (uscita sul blog RaiNews Poesia di Luigia Sorrentino) che per questo libro ha parlato acutamente di “discanto direi tragico (reso a volte in modo sorprendentemente giocoso), di un certo nostro attuale non vivere o vivere male il mondo”. La Annino è poeta (da alcuni anni anche artista visivo) che vanta, tra i riconoscimenti di Govoni, Ungaretti, Betocchi, Luzi, Antonio Porta, Giudici, Pagliarani,  una carriera importante e appartata, preferendo ai riflettori la vita tout court: “Esco dall’occhio inquieto del / paesaggio, scendo a ritroso, in / fondo con / dolore di gambero”, per dirla con le parole del suo “buon pastore”.
Come il Buio-Merlo dell’ultima poesia, spagliato sul pavimento, così il verso della Annino si dilata sulla pagina e prende a disporsi con traiettorie vaste e imprevedibili nel vergine foglio mentale, attraverso richiami, echi e angoli diversi di visuale: “Grandioso! Un topo mi fissò, sibilava / dalle sue guance. C’incontrammo in / cucina decidendo con / stima la strategia. Com’un vassoio di / talco su due zampe faceva / fatica. Mai ho amato tanto l’odore / d’un topo, quel volo / d’aceto sulle pareti, basso, unto / fissandomi e non respirai anch’io, frullavo / le dita bianche; ogni uomo –pensai- com’un / tetro cannibale, è solo.” (Profumo, pag.17). Dal particolare giunge con facilità unica all’universale, e dal triviale domestico la Annino riesce sempre a trarre riflessioni dal respiro lunghissimo, e versi di poeta assoluto, che sa continuamente mettere in crisi il linguaggio precostituito così come i concetti ripiegati su se stessi: “Ché, se togli libertà a una / persona, questa altrove se la / rifà e diventa più dolce / la marmellata! Ma uno schiavo / di meno conta, nel bilancio dello / spirito. (Lui fu / lasciato solo: non volle quel dolore, quell’altro, né le sagome / del discorso che chiudono porte, allacciano scarpe magistralmente. / Neppure / le carte scoperte, non volle l’odore / medico delle bocche; né il facchino di / quelle nuvole o il carico dei materassi. Lo / spazio e l’ozio non ebbero / limiti, e ogni eccesso.) Il resto finiscilo tu.” (La griglia del dispiacere, pag.21).
Versi decantati a lungo  “nel silenzio ch’è / l’udito maggiore”, provvisti di temerarietà istintiva, carattere forte e lungimiranza salomonica come nella lucida “Plagio, invasione, imitazione piccina”, dove scrive: “e non / vede quel che dovrebbe: che / biada d’ogni Storia è il / plagio. Anche la / terra agli indiani ma anche / prima, pare strano è / così (pensaci, California!). / Anche l’invasione / Tranviaria – dietro le spalle uno / ti becca quel che può. Lei / copia la scrittura di lui / staccandola dai rami, col / salto dello stesso / tramvai. Roba da Cina, mica / ruba le mele! La mente, le / parole, l’abc, se li mette nel / piatto titillando quei bottoni / del pigiama com’un malato / le flebo”. Nel singolare poemetto “Spartakia (rivolta dei sacchi, in Campania)”, così come nel “Processo universale”, la Annino fonde con genio l’epico al tragico e al comico, tocca insieme tutti i registri e in modo magistrale, fuor di retorica, esprime la propria resistenza umana e civile (“-Mai / ho sparato / diossina, e non voglio / che muoia qualcosa di / me. Ho / preso gusto alla vita, fratelli, / in questa / città bollente. Mi sono / allenato. Apnea, si / dice. Niente / delle vicende umane somiglia / all’esistenza quanto questo / odore”, pag.46, la rivolta di un sacco ribelle). Il basso continuo, da danza turca (nell’aria e nel profumo turchi), marcia ossessivo e implosivo, mostra la postura dell’uomo, l’errare (nelle diverse accezioni semantiche), l’ardere del “Ricordo, terribile maglio”, la cenere di tutti gli orizzonti umani: “Quando l’uomo non leva / un ragno dal buco, / ricrea mercato: cultura, / Storia, persino morte, / qualunque / guadagno. Tanto non / distingue niente, il sasso / di quella mente” (pag.42); e, a pag. 60, attraverso le parole del Bing Bang, personificato, a proposito della Storia: “Profonda cenere e basta, e non / la generò il fuoco. M’ha / chiamato la Terra, dunque / faccio. Togliere diversità / renderebbe / più umano l’uomo. Ma il / Caro Estinto, cioè lui, ha / giocato a modo mio ed ho / vinto. Il chi è non / lo so, ma odio / l’imitazione, quindi / v’implodo. Dalla / cenere al cenerone e, / prego, vedasi fino in / fondo che ogni abuso va / contro di sé. Ora, api, / via. Niente voglio dietro / di me, giacché / io sul serio, non /sono di questo mondo!”.