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Il cane borghese
di Eliza Macadan (La Vita Felice)

 

copertina il cane borghese di eliza macadanC’è un movimento continuo nei versi di Eliza Macadan. Il cane borghese è un libro inquieto, indocile, una raccolta che mette in risalto l’orrore del domicilio del Baudelaire dei poemetti in prosa, (vedi I, Lo straniero o XLVIII, Fuori dal mondo), commentato così da Franco Rella: […] la bellezza che traspare nel mondo è traccia sì della bellezza che sta al di là del visibile, e che nel visibile si manifesta come un annuncio. Ma è anche, al contempo, la rivelazione dell’imperfezione del mondo in cui noi siamo esiliati, condannati all’“orrore del domicilio”, desituati da ogni abitudine, costretti a una ricerca infinita, attraverso le tracce, i segni, i frammenti di un mondo che decade e rovina, di un “paradiso” che pure ci è manifesto nella sua inafferrabilità (dall’introduzione a C. Baudelaire, Lo Spleen di Parigi, traduzione e cura di Franco Rella, Feltrinelli, Milano 2008). La Macadan scrive infatti: «la mia casa non è di questo mondo / è abusiva» (p. 61),  «la casa del sonno / è in fiamme» (p.27), «indecenza che io rimanga / in questa città» (p.38), riuscendo a godere del profumo domestico soltanto in lontananza: «da lontano sento in bocca / il sapore di casa» (p. 46). Questa condizione esistenziale nomade, la rende «ugualmente frustrata dall’inferno e dal paradiso» (p. 26), (altro polo baudelairiano, la colluttazione tra sacro e profano), quel Marriage of Heaven and Hell (Blake) così drammatico nell’uomo del ventunesimo secolo, spesso spogliato anche della minima parvenza di sacralità nel suo giornaliero vissuto laico. L’ironia dell’autrice scoperchia i sepolcri vuoti del consumismo irragionevole, la plastica pervasiva e soffocante che ci riveste in ogni forma di atto o possesso sociale, dalle relazioni ai beni, indebolendo la forza delle parole e i punti di riferimento validi, lasciando soltanto il sedativo della solitudine: «in una notte come questa / il mattino non arriva mai / la solitudine ci ha sedati / e non arrivo nemmeno alle tue labbra / hai lasciato negli occhi / tutti i dolori / il cielo piove con ogni cosa / / le mani brancolano / nel buio / nella parola» (p. 22). La decurtazione del mito (p. 69) è un’altra delle strategie poetiche per abbattere i muri alienati-alienanti che circondano la vita borghese, fatta dell’odore del caffè (o del tè verde, declinazione radical chic dileggiata a pagina 55), di passeggiate con cani, anch’essi borghesi, resistenti alla routine come l’autrice (p. 54) che mostra un’autentica insofferenza al cinismo sociale, all’indifferenza civile, volgendosi, come il Nostro, più volte alla luna, possibile appiglio, via di fuga: «chiudetemi / nella luna piena / che solo il daimon mi possa strappare le parole / accendo la foresta / con la punta della matita / verso l’inchiostro di china / sul tavolo con la gamba di legno / chiudetemi nella luna piena / e ballerò divinamente impazzita» (p.53). La morte, altro tòpos letterario, viene trattata da macchietta (p. 42) e sùbito dopo mostrata in tutta la sua autorità: «oggi / questa morte feroce / non lascia un bambino / nascere / questa morte solo pelle e ossa /  non vuole più / un’altra vita» (p. 43). L’asciuttezza della dedica iniziale, a te, rivela la concretezza poetica di Eliza Macadan, l’essenziale desiderio comunicativo scevro da pregiudizi e canali privilegiati, mentre i tre versi che fungono da proemio, «mi collego / al tic tac muto / del mio tempo» (p. 13) denunciano l’urgenza sociale, il lavorio empatico di chi scrive. La generosità di un poeta paga pegno attraverso quella condizione di esilio accennata all’inizio, maggiormente amplificata in chi ha lasciato le proprie radici per camminare con le sue gambe immersa in un’altra lingua: «non ho più patria / l’ho lasciata alle spalle / senza che se ne accorgesse / i fili sono impigliati / nel palco dell’infanzia / le parche tessono / di giorno una tela / che le notti districano» (p. 67).