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Romanzo anticipatore della moderna narrativa psicologica e d’introspezione, Il Rosso e il Nero (1830) di Stendhal (pseud. di Henri Beyle) non ottiene, al suo apparire, il successo popolare inseguito dall’autore. Tuttavia, non passa inosservato.
Se il pubblico francese dell’epoca, assuefatto alla lettura dei Dumas, George Sand, Eugene Sue e Paul de Kock – narratori prolissi e talora grossolani: ben distanti dalle sottigliezze stendhaliane -, mostra d’ignorarlo, diversa è la reazione della società letteraria. Il romanzo (la cui lettura viene proibita da un decreto del 20 giugno 1864 della Congregazione dell’Indice) incuriosisce, coinvolge, tocca temi significativi: così le stroncature si mescolano agli elogi, dando luogo a un variegato dibattito (di cui si registrano, qui, alcuni interventi pubblicati in Francia dall’anno di stampa del romanzo e che, in parte, non sono tradotti in italiano. Relativamente agli scritti sul Rosso e il Nero più noti o traslati in Italia, si rimanda alle varie bibliografie).
Con una stroncatura del romanzo esordisce “La Revue de Paris” [1. Novembre 1830, pagg. 258-260.], che giudica il “punto di vista” dello scrittore “assai discutibile”; e, dopo avere identificato Stendhal col personaggio Julien, ritenuto esecrabile, conclude affermando che “la critica è come la medicina: tutti i giorni condanna i malati”[2. La traduzione dei testi originali in lingua francese, citati in questo capitolo, sono – salvo diversa indicazione – opera dell’autore del presente volume.].
Dal canto suo, “Le Globe” [3. 28 novembre 1830.] trova il titolo del libro “incomprensibile”; mentre “Le Mercure du XIXe siècle” [4. Dicembre 1830, pagg. 458-465.] lo scambia per “un romanzo satirico”.
Un articolo della “Gazette littéraire” [5. 2 dicembre 1830.] condanna invece lo stile ineguale, le contraddizioni dei personaggi, delle descrizioni e della stessa trama. Ma apprezza il resoconto perfettamente naturale dell’amore fra Julien e Louise Rênal, esito dell’indubbio talento dello scrittore. Poi l’articolo riepiloga in modo che vorrebbe apparire enigmatico: “Pochi uomini sarebbero capaci di scrivere un simile libro; ma, quando M. de Stendhal lo vorrà, ne scriverà uno molto migliore”.
Dopo avere genericamente osservato che “le opere di transizione sono mortali per le nuove opere”, “Le Figaro” [6.  20 dicembre 1830.] stima il romanzo “il più rimarchevole apparso dopo la rivoluzione di luglio”. E Jules Janin, in uno scritto su “Le Journal des débats politiques et littéraires” [7. 26 dicembre 1830.], dopo avere confessato d’ignorare chi, fra gesuiti, borghesi, liberali e congregazionisti descritti dal romanzo appartenga alla coloritura rossa o nera, dichiara Il Rosso e il Nero degno, dopotutto, “d’essere letto”; e Stendhal un ineffabile “facitore di paradossi”.
Seguono giudizi negativi su “Le Temps” [8. 26 gennaio 1831.] (il libro stendhaliano sarebbe nero, cioè “lugubre”, e sarebbe rosso per il sangue che vi è sparso. Quanto a Stendhal, questi apparirebbe un “dissacratore per eccellenza”: il suo mondo sarebbe desolato, l’amore narrato nascerebbe dall’odio e i personaggi non sarebbero che “maschere”); su “L’Artiste” [9. Febbraio 1831, pag. 13.] (che prefigura per il romanzo un successo “immediato” piuttosto che “duraturo”); infine su “La Gazette de France” [10. 16 febbraio 1831.], arrivata a consigliare “monsieur de Stendhal” di “cambiare ancora una volta nome, e per sempre maniera e stile”.
Al di là delle reazioni suscitate dal libro d’un autore allora poco noto, è dopo la morte di Stendhal che s’assiste a una lettura più attenta e meditata del Rosso e il Nero. Un risalto notevole per la comprensione dei temi del libro assume un lungo scritto di Auguste Bussière [11.  “La Revue des Deux Mondes”, 15 gennaio 1843, pagg. 250-299.]. Dopo avere spiegato che l’intenzione principale del romanzo è di mostrare la superiorità della “passione” sulla “vanità” e la retorica del “dovere”, Bussière individua nella rappresentazione dei caratteri i nessi di continuità e sviluppo fra Armance (1827), il primo romanzo pubblicato da Stendhal, e Il Rosso e il Nero. Avanzata una riserva sull’attendibilità del carattere del personaggio Julien – troppo “falso, contraddittorio, impossibile, incomprensibile in certe parti della narrazione” -, riserva che risente dell’orientamento illuminista-naturalistico di Bussière, il critico riconosce “il fascino e la novità dei dettagli” narrativi, “la bellezza autentica dei due caratteri femminili, bellezza commovente l’una, energica e fiera l’altra”. Ne consegue che in quest’opera le donne rivestano “un ruolo più bello degli uomini, anche quando gli uomini hanno un bel ruolo, ciò che torna a gloria di quelle” che l’autore “ha amato”.

Del 1945 è la Notice sur la vie et les oeuvres de Henri Beyle (de Stendhal) [12. Poi in Stendhal, Mélanges, Cercle du Bibliophile, Genève, 1971, 5 voll., pagg. 117-123.] del cugino di Stendhal, Romain Colomb, che coglie nel Rosso e il Nero un “quadro” dell’alta società francese con la sua vita opulenta e vana; in contrasto coi bisogni di “lavorare per vivere” che assediano chi, come Julien, è povero e, per il proprio orgoglio, va incontro alla rovina: “Triste conseguenza” – chiosa Colomb – “degli eccessi della nostra civiltà”.
Il 1° novembre 1846, “La Revue nouvelle” pubblica un articolo dal titolo Du caractère et des écrits d’Henri Beyle [13. Poi in Les sensations d’un juré, Lemerre, Paris, 1875, pagg. 117-123.] di Hippolyte Babou, che fa derivare il personaggio di Julien da “un’ispirazione diabolica”: né più, né meno. A Babou, Julien appare come una “tipizzazione infernale” nella quale Stendhal proietterebbe il proprio infelice “dèmone”. Tanto che se qualcuno chiedesse all’autore chi è Julien, potrebbe sentirsi rispondere: “Sì, Julien sono io”; anche se, certamente, “Julien ha più di Beyle un’inesauribile forza di volontà”. “Questo romanzo” rincara Babou “è terribile; lo si legge con un’angoscia profonda fino alla conclusione, non osando rileggerlo per paura d’attingervi ancora l’immenso disgusto della vita e della morte, sentimenti mille volte più strazianti di ciò che porta al suicidio. Fortunatamente pochi lettori sono in grado di distinguere il senso spaventoso dell’opera” (!)… Dove lo scherno verso il personaggio stendhaliano si coniuga con un paternalistico disprezzo per il lettore. Senonché Babou si dimostra un critico contraddittorio almeno quanto certi protagonisti del testo da lui criticato. Lo rivela quando attribuisce a Il Rosso e il Nero, che infine dichiara meritevole di “ammirazione”, il pregio d’“una semplicità inimitabile”.
Stroncatura netta è quella apparsa su “Le Moniteur” nel 1854 a opera di Sainte-Beuve, l’autore del romanzo intimista Voluttà (1834). Intanto Sainte-Beuve prende le distanze dal libro, dichiarando di non capire perché Il Rosso e il Nero abbia tale titolo. Rimprovera poi a Stendhal di essere uno spirito aristocratico che finge di prendere le parti dei proletari rivoluzionari, di non possedere un vero talento di romanziere e di tratteggiare caratteri che non sono “di esseri viventi, ma di automi ingegnosamente costruiti”. Julien? Ha solo “le due o tre idee fisse che gli ha attribuito l’autore” e non è che “un piccolo mostro odioso, impossibile, uno scellerato somigliante a un Robespierre gettato nella vita civile e nell’intrigo domestico”. Quanto a Stendhal, costui sarebbe afflitto dalla magagna di “avere troppo visto l’Italia, avere capito troppo il quindicesimo secolo romano o fiorentino, avere letto troppo Machiavelli”…
Va ricordato che, pur conoscendosi e scambiandosi delle lettere, Sainte-Beuve e Stendhal non si stimano.

Un ulteriore tassello nel prospetto della demolizione moralistica del Rosso e il Nero è l’articolo di Elme Caro [14. ‘‘La Revue contemporaine’’, 1855, XX, pagg. 209-241.]. Dopo avere frainteso il senso del titolo, Caro si palesa “profondamente rattristato” dalla lettura del libro. Questo, è vero, rivela “una certa giovinezza di sensazioni, perfino di sentimenti, una certa freschezza del paesaggio, qualche verità d’osservazione”. Ma ciò non dura: presto “tutto diviene falso, impossibile, estremo. L’inverosimile e l’odioso irritano a poco a poco e respingono lo spirito del lettore. L’ultima parte del libro è decisamente insopportabile per esagerazione e bizzarria”. Non manca la stoccata per la figura di Julien, “scellerato da salotto, spirituale ateo, irresistibile per le donne del gran mondo, bello e fiero”: “Quale ideale per questo povero Stendhal, che non fu mai se non un ateo bruttissimo, un millantatore di vizi, e un mediocre Don Giovanni”! E, invece d’attenersi a quanto più conta nel lavoro critico – che è sempre l’opera di cui si tratta -, Caro insiste nell’esorcismo del diabolico autore: “Sappiamo che egli ha sognato per tutta la vita di spaventare le persone oneste con la bassezza dei suoi vizi e la sua raffinata immoralità. Niente lo incantava quanto l’assumere atteggiamenti satanici e recare in fronte la sinistra maestà dell’abisso”.
D’altro tenore è l’ermeneutica di Hippolyte Taine su “La Nouvelle Revue de Paris” [15.  1° marzo 1864.]. “Io cerco” esordisce “una parola per esprimere il genere di spirito di Beyle; e questa parola, mi sembra, è spirito superiore […]. Nell’infinito mondo, l’artista sceglie il proprio mondo. Quello di Beyle non include che i sentimenti, i tratti del carattere, le vicende passionali, cioè la vita dell’anima […]. I suoi personaggi sono del tutto reali, molto originali, del tutto lontani dalla folla, al pari dell’autore stesso. Sono uomini notevoli, e non grandi uomini, personaggi da ricordare, non modelli da imitare”.
Sobrio e puntuale è l’intervento di Émile Zola, caposcuola del naturalismo, nella raccolta di saggi I romanzieri naturalisti (1881); includente, con Stendhal, anche Balzac e Flaubert. Zola spiega l’importante ruolo svolto dal mito napoleonico nell’opera stendhaliana: non si può capire Il Rosso e il Nero se non riferendosi “all’epoca in cui il romanzo è stato concepito e se non si tiene conto dello stato psicologico in cui la prodigiosa ambizione soddisfatta dell’imperatore aveva lasciato la generazione di Stendhal. Questo scettico, questo freddo ironista, questo moralista senza pregiudizi, questo scrittore che si guarda da ogni entusiasmo, freme e s’inchina solo al nome di Napoleone […]. Da tale punto di vista, occorre guardare il suo Julien Sorel come la personificazione dei sogni ambiziosi e dei rimpianti di tutta un’epoca […]. Restaurazione, governo di preti e cortigiani; le sacrestie e i salotti sostituivano i campi di battaglia, l’ipocrisia stava per diventare l’arma onnipotente dei risaliti. Questa è la chiave del carattere di Julien, all’inizio del libro”.
Zola evidenzia, ancora, un aspetto di Stendhal, vale a dire il bonheur, la ‘felicità’ di scrivere: una frase dietro l’altra, senza troppo curarsi dello stile. Perché “questo logico delle idee è un arruffone dello stile e della composizione letteraria”. Ma a Stendhal importa – questa “la caratteristica vera e nuova del romanzo” – nient’altro che “lo studio dell’uomo quale esso è, spogliato dei drappeggi della retorica e visto al di fuori delle convenzioni letterarie e sociali. Stendhal ha osato per primo questa verità”.
Le capacità di analisi psicologica di Stendhal vengono rimarcate da Paul Bourget su “La Nouvelle Revue de Paris” [16. 15 agosto 1882. Poi in Essais de psychologie contemporaine, Plon, Paris, 1901, tomo I, pagg. 319-330.]: “La sua potenza d’analisi, la sua fremente sensibilità, la molteplicità delle sue esperienze, portano a concepire ed esprimere alcune verità profonde sulla Francia del XIX secolo”. Bourget considera Il Rosso e il Nero un “libro straordinario”, il cui dato saliente è il tema della “solitudine” dell’individuo: per meglio dire del soggetto dal talento superiore, ma povero; che, in una società ostile, non trova mai il proprio posto. Magari, “se ha i nervi delicati” potrà sognare il “lusso”; se li ha “robusti” vorrà il potere. Oppure potrà aspirare al “lavoro letterario e artistico”.
Ma quale può essere il destino di Julien che non è letterato né artista e nemmeno troppo amante del lusso e del potere? Un destino drammatico, fatto di cocenti delusioni e sventure; sino alla tragedia finale. Questo figlio del proprio secolo, sopraffatto dalla storia, resta un “malinconico in rivolta” contro la società, afflitto dalla nostalgia di una vita migliore che sa di non potere raggiungere.

Anche Émile Faguet, nel volume Politiques et moralistes du XIXe siècle [17. Boivin & Cie, Paris, 1903.], afferma il valore del Rosso e il Nero dove i particolari di talune scene superano, “nella loro sobrietà, nel loro disegno netto e secco, nella loro energica e un po’ tesa precisione”, la concezione generale di romanzo: essi sono “delle meraviglie di analisi psicologica e come di dissezione morale”, col protagonista divenuto tramite della “verità universale” che l’autore ha voluto mostrare.
Sui rapporti tra Stendhal e il proprio libro, una specifica importanza hanno le osservazioni di Léon Blum, autore del singolare Stendhal e il beylismo [18. Ollendorf, Paris, 1914.]: che definisce il romanzo “un giornale della giovinezza raccordato cronologicamente”, ovvero il referto del disagio di un giovane alle prese con la società francese durante la Restaurazione. “Sapere in quale misura Stendhal ha voluto rappresentarsi in questo personaggio è la più vecchia tra le controversie stendhaliane”. Giacché lo stesso autore dichiara “ai suoi amici parigini che Julien Sorel altri non era che Henri Beyle”: anche se, dato il suo noto gusto per la mistificazione, non viene creduto. Ma – azzarda Blum – gli amici non riconoscono Beyle per la semplice ragione che… “non lo conoscevano”. Il cerchio si chiude sull’identificazione Julien-Stendhal: ma quanto diversa, questa, da quella azzardata, invero molto superficialmente, da Babou nel 1846 e da Caro nel 1855.
Un illuminante esame di Julien è quello di Henri Martineau: “Si può forse dire che Julien Sorel sia un giovane abile? No, certo […]. Egli si esercita all’ipocrisia”, ma non è “un ipocrita. È un impulsivo, un impulsivo molto intelligente che ha capito il danno della sincerità nella vita sociale” [19. Le Coeur de Stendhal. Histoire de sa vie et de ses sentiments, Albin Michel, Paris, 1953.].
Circa le valenze politiche del Rosso e il Nero, Louis Aragon pone l’accento sul “giacobinismo di Stendhal” e sull’attualità sempiterna del romanzo; che non a caso – si può aggiungere – rimane un classico. Da cui non potranno staccarsi “né i lettori, né gli scrittori futuri”: perché, “se per illuminare la storia s’inventa un’altra sorgente di luce, la luce resta sempre luce” [20. La Lumière de Stendhal, Denoel, Paris, 1954, pagg. 53-54 e pagg. 98-99.].
Relativamente alla “fantasia cromatica” di Stendhal, Michel Butor [21. Repertoire, V, Editions de Minuit, Paris, 1982, pagg. 171-199.] connota la funzione del titolo del romanzo e una prevalenza, nello stesso, del nero sul rosso. Anche Julien, che si tenderebbe a interpretare in chiave ‘rossa’, è contaminato dal ‘nero’: emblematizzato dai neri occhi del giovane.
Tra gli scritti tardonovecenteschi sul romanzo stendhaliano, sono da ricordare En lisant en écrivant di Julien Gracq, che vede nel Rosso e il Nero non “un mondo trasfigurato, ma semplicemente repassioné” [22. Librairie José Corti, Paris, 1980, pagg. 23-46.]; eilvolume Snob [23. (1982). Trad. it. di Federico Pellizzi e Giulia Arborio Mella, Adelphi, Milano, 1933,  pag. 144.] di Jasper Griffin, che chiama Julien “uno dei grandi snob sessuali della letteratura”: qualcuno che “prova non solo la gioia pura e semplice dell’inferiore amato da una nobildonna, ma anche quella di averla costretta a mostrare le proprie emozioni senza tradire minimamente le sue”. Questo è un parere che sfiora la poco indagata connessione fra sesso e snobismo – intesa come dialettica fra desiderio, orgoglio, vanità, ‘moda’ e, buon ultimo, l’amore -, da Stendhal precorsa nel trattato Dell’Amore (1822).

 

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Stefano Lanuzza

Storico della letteratura, (Dante e gli altri, Stampa Alternativa, 2001) studioso di chiara fama, è una figura singolare di intellettuale e artista, svolge anche attività di pittore e grafico, ha pubblicato libri di poesia e un romanzo sperimentale. Le sue ricerche continuano a essere rivolte agli “esclusi”, e alle riscoperte e valorizzazioni.