Al momento stai visualizzando Il Professor Salifizio e il volo

Se non è vero che il gufo vola la notte, perché noi dormiamo e non è vero che i continenti vanno alla deriva, perché noi non ne sentiamo il rumore e se è vero che i neutrini e i bosoni li hanno inventati i maghi nelle caverne svizzere e noi siamo convinti che la terra gira solo perché la gente ci considererebbe ‘ignoranti’, allora… , allora, abbiamo la certezza che, almeno, una delle porte della nostra mente è serrata.
In fondo alle apparenze c’è una realtà sottile attraverso cui si intravede il destino. Quel destino che gli oracoli sanno rivelare con tanta chiarezza da farcelo credere inverosimile. Gli oracoli attingono la verità dal tempo e la rivelano, nel silenzio, con la voce dell’eco. L’eco è generata dal fragore dei continenti che procedono alla deriva lungo incredibili rotte di fuoco, mentre noi, uomini, storditi dalle primavere, corriamo tronfi per i nostri formicai.
Nella prima gioventù tutto sembra fattibile e la realtà a portata di mano, in ogni suo risvolto, è la gioventù senza limiti e senza disciplina. Celebrata in nome di una libertà anarchica, che ci risucchia nel flusso degli eventi, senza che riusciamo a dare una direzione definita e uno scopo al nostro agire. Ci imbarchiamo per viaggi d’avventura, senza rotta e senza meta, dove si parte senza nulla abbandonare, con la certezza di potere tornare in qualunque momento. Il coraggio trova nell’audacia la sua grande alleata, così l’impresa prende forma, il sentimento colora di entusiasmo le possibilità e il nuovo è pronto per irrompere in campo e diventare progresso. È questa la ‘beata’ gioventù dei vent’anni, senza ‘se’ e senza ‘ma’, senza ripensamenti e senza rimpianti. Proprio così come dev’essere.
Quando i padri hanno saputo disseminare di saggezza la strada dei figli impedendo che il loro coraggio diventi furore e il loro entusiasmo fanatismo, vuol dire che quel popolo ha saputo ascoltare i suoi oracoli e procedere appaiato al suo destino senza subirlo e senza ribellarsi.
A ferro e fuoco è stato messo il passato e col fuoco di un crogiuolo forgiato il futuro lasciando bollire il sangue nelle vene, senza colpo ferire per tutto cambiare, lasciando intatti colori e profumi di primavera e le brezze delle notti d’estate.
A diventare eroi delle generazioni a venire.

Alcuni anni fa, in treno, incontrai, per caso, un costruttore di cattedrali, lui sapeva costruire scale con le nuvole per salire più in alto delle montagne dove è possibile respirare l’aria rarefatta dei sogni e guardare la vita di ogni giorno come se si fosse in aereo, con il grande vantaggio di restare saldamente in terra, perché, a me, andare in aereo un qualche disagio, ancor oggi, lo provoca ancora.
Salire e scendere per queste scale, con i gradini di nuvole, ha l’inconveniente di non consentire una buona compensazione della pressione delle orecchie, per cui facilmente si avverte un senso di vertigine e uno stordimento che a sua volta genera una non esatta percezione del passare del tempo. Idee, pensieri e riflessioni a questo servono, a farci scendere dalle guglie delle cattedrali, come dicevo, provocano questo inconveniente, tutto sommato, non serio. Io, ad un certo momento della mia vita, mi ritrovai a vivere giorni che riempivano il tempo di contenuti senza un inizio e senza una meta, in un succedersi incessante di accadimenti, classificati con la numerazione dei giorni, secondo il criterio del prima e del poi.
Queste cataste di date riempiono gli archivi storici e danno una logica agli eventi che altrimenti andrebbero smarriti e sopravanzati dai fatti storicamente più significativi. Il tempo, passando attraverso il filtro della vita di un uomo, assume una dimensione diversa a seconda della stagione in cui viene vissuto, e ad esso ciascuno attribuisce un’importanza e un significato non univoco, mano a mano che le stagioni della vita si susseguono. A me è capitato di restare attardato in una stagione della vita, ormai trascorsa, e precisamente quando i viaggi non hanno partenza e meta. Fino ad una certa età andare o venire non ha grande differenza, così come lasciare e trovare non desta grandi emozioni. Quando il valore degli eventi comincia ad acquistare rilevanza e le prospettive riempiono le speranze di pensieri, si cominciano a formulare i piani e a elaborare progetti, allora il tempo assume un senso diverso rispetto a prima, quello che si lascia deve essere bilanciato da quello che si trova, e un significato lo assume anche il tempo che si impiega a trovarlo, altrimenti insorge il rimpianto di ciò che si è lasciato.
Ciò che si lascia non si ritrova nell’archivio storico, tra le cataste di numeri delle date dei giorni passati. Lì, è registrato l’evento, non già la realtà remota, che solo la macchina del tempo e la nostalgia potrebbero farci rivivere.
Quando mi recai nel giardino della casa della mia infanzia, tra le foglie secche vidi muoversi una tartaruga, rimasi sorpreso nel riconoscere la tartaruga che mi avevano regalato da bambino, perché aveva una scheggiatura sul lato destro del carapace, che le aveva procurato Edipo, il cane, nel tentativo di mangiarsela.
Quella sera, prima di addormentarmi, avvertii uno strano malessere, come una sensazione di vuoto allo stomaco che mi toglieva l’aria del respiro.
Da un anno, ormai, avevo, finalmente, cominciato a lavorare, e vedevo un nuovo orizzonte di libertà delinearsi dinanzi a me, la volontà e la possibilità si avvicinavano. Con gli amici, una sera, decidemmo di andare al circo, il numero dei trapezisti mi creò uno strano disagio, una sensazione di calore mi faceva sudare e a stento riuscii a trattenermi sulla sedia, decisi che non avrei più messo piede in un circo. La domenica successiva, durante una gita in montagna, provai una sensazione simile affacciandomi su uno strapiombo scavato nella montagna, da un torrente. La sera, prima di addormentarmi, quell’immagine mi risucchiò in un gorgo di vertigini che il mattino seguente mi fece svegliare con un terribile mal di testa.

La sera, vicino casa, capitava spesso di incontrare Natascia, io avevo immaginato si chiamasse così, era una ragazzona imponente, formosa, e aspettava sempre qualcuno, era Natascia ‘bagascia’. Mi attraeva, ma allo stesso tempo, mi incuteva timore.
Nel volgere di pochi mesi la mia vita indomita divenne appassita da mille timori e molti malesseri offuscarono le mie aspettative. La medicina mi rassicurava, ma il mio disagio cresceva.
Fu così che decisi di recarmi all’archivio storico, per cercare gli eventi della mia vita passata, quando vivevo senza problemi.
L’archivista era un vecchietto, che non t’ascoltava quando gli rivolgevi la parola. Con una barbetta bianca, da fauno, la pelle rugosa e un sorriso sognante, parlava poco, ma doveva avere una straordinaria competenza con i numeri, sul tavolo aveva una calcolatrice a manovella, che non si poteva capire a cosa potesse servirgli. Quando gli dissi cosa volevo cercare mi squadrò dalla testa ai piedi, e tirò fuori un faldone con la data di 5 anni prima, a quell’epoca avevo finito gli studi e cominciato a cercare lavoro, avevo presentato molte domande e fatto molti colloqui di lavoro.
– Hai fatto molti viaggi, in quell’anno? – mi chiese e affermò, allo stesso tempo.
– Si, sono stato in giro un po’ ovunque –risposi, generico.
– Quelli, erano viaggi per tornare. Erano viaggi senza partenza. – disse sibillino.
Chiuse il faldone e scomparve. Aspettai un po’, poi decisi d’andare via.
Nei giorni successivi mi chiesi cosa voleva dire il vecchietto con ‘con viaggi senza partenza, per tornare’. È logico che un viaggio si fa e poi si torna, a meno che uno non ci lascia le penne, nel viaggio. E poi, cosa c’entravano i viaggi di allora con il mio star male di ora?
Quella sera incontrai Natascia che mi lanciò un’occhiata accattivante. Parecchi pensieri turbolenti mi provocava, con le sue potenzialità erotiche. Natascia mi intrigava parecchio.
Era trascorsa una settimana quando decisi di tornare all’archivio storico, dovevo capire cosa erano ‘i viaggi senza partenza’, ma trovai una Signora. Chiesi del vecchietto, e mi disse che:
– Il Professor Salifizio è nei giorni dispari – nei giorni pari, invece, era Lei.
L’indomani lo trovai il ‘Professor Salifizio’ e gli posi la mia domanda. Mi rispose che:
– I viaggi senza partenza sono come quando vai dal fornaio o dal barbiere, in cui vai e torni.
Era una terribile giornata di vento, a tratti veniva giù nevischio e faceva freddo. Io decisi di tornare dal Professor Salifizio. Uscire in una giornata di vento era diventata, per me, un’impresa, mi evocava la paura di essere portato via in volo da una tromba d’aria.
Quando mi vide, ebbi l’impressione che quel Professore fosse soddisfatto.
– È la terza volta che vieni, bene! Allora, ti dirò come bisogna fare per uscire dal panico. Corri a piedi in aeroporto e compra un biglietto ‘solo andata’ per Milano, e fai il tuo corso. Se sopravvivi, a Milano, compra un biglietto ‘solo ritorno’, sposa Maria, e scorda la tartaruga col carapace scheggiato. – Poi, il Salifizio, come al solito, scomparve dietro uno scaffale di numeri.
Sapevo che era inutile aspettare, non sarebbe più ricomparso.
Come faceva a sapere del mio corso a Milano. E Maria? Non conoscevo nessuna ‘Maria’, ma, il volo?! Il volo, no, era troppo! Io non avevo mai volato, ero stato educato alla prudenza, la sola idea mi terrorizzava. E poi, oggi, con quel vento, come avrei fatto ad andare fino all’aeroporto, e perché mai a piedi. Presi le scale, per risalire dai piani sotto interrati dell’archivio storico, e mi fermai nell’atrio a pensare. E se fosse stato vero quello che mi aveva detto il Professor Salifizio? In fondo era quella la ragione per cui ero venuto lì, per ben tre volte, a cercare nell’archivio storico. Ora, finalmente, avevo trovato qualcosa, per quanto inverosimile potesse apparire. A dire il vero, mi vergognavo un po’ con me stesso, tanto mi sembravano puerili le cose che il Professor Salifizio mi aveva detto di fare, le percepivo come un’offesa alla mia intelligenza, mi sentivo umiliato nel mio orgoglio personale. Andai vicino la porta a vetri, il vento penetrava sibilando dalle fessure, il panico di dovere uscire fuori in quel vento e attraversare tutta la piazza lì davanti, si impadronì di me, mi ritrovai sudato, e ansimante, non riuscivo a dominare il tremore che mi aveva invaso il corpo, cercai un sedile per darmi il tempo di calmarmi e riacquistare il controllo di me stesso.
Bisognava scegliere, o aprire gli occhi e con disincanto guardare gli eventi che mi avevano portato lì, oppure, fare finta di credere che niente di anomalo stesse accadendo e la mia vita stesse procedendo lungo il suo corso normale. E gli episodi di panico, altro non erano che eventi isolati di una fatalità avversa, da sottacere. Dovevo costringermi ad agire nel modo insensato che mi aveva appena suggerito il Professore? Oppure girare le spalle a ciò che ritenevo una sciocchezza, e continuare la mia strada così come il mio destino l’aveva segnata? Mi sono sentito prigioniero, in quell’atrio, se mi fossi avvicinato alla porta, sapevo che sarei stato male nuovamente. Eppure, una decisione dovevo prenderla: o affrontare il vento e la piazza vuota oppure star male, magari perdere i sensi, svenire, abbandonarmi al mio malessere, ed essere portato via in ambulanza. Mi sono sentito vigliacco, non era quella l’opinione che avevo di me stesso. Meglio morire che accettare di essere sopraffatto dal panico, coinvolgere altra gente in ciò che sapevo essere una mia debolezza. Mi alzai d’istinto, senza pensare, corsi alla porta e uscii fuori all’aperto. Sarei andato a piedi fino all’aeroporto, avrei fatto un biglietto aereo per Milano e poi sarei andato in aereo, non in treno come avevo deciso il giorno prima, quando mi avevano comunicato del corso per dirigente a Milano. Il vento è vento, ma io non sono un aquilone che può essere portato via o sbattuto qua e là sui muri delle case, il peso del mio corpo e la mia fisicità non possono svanire in una paura del vento, per attraversare la piazza basta guardare dove voglio arrivare e impedirmi di pensare. Per arrivare all’aeroporto, saranno stati 4 o 5 chilometri di strada, perciò posso assolutamente farcela.
Quando mi presentai allo sportello dei biglietti aerei, dalla signorina dietro il vetro mi sono sentito dire:
– Noi ci conosciamo, ci incontriamo per strada quando faccio il turno di sera – Era l’incredibile Natascia, con un sorriso amichevole, dolce, cortese, alta e magra, non monumentale né formosa o ammiccante, come io, invece, l’avevo sempre vista.

Salii sulla corriera per tornare a casa, c’erano solo tre persone, mi sedetti e guardai il vento e la pioggia sottile, da dietro il vetro. Pensai a ciò che era successo, e cercai di capire perché il viaggio all’aeroporto non era come andare dal fornaio o dal barbiere. Oggi avevo preso una decisione, avevo lasciato l’archivio storico, ed ero andato nel vento attraversando la piazza, col proposito di affrontare un volo di cui ero stato educato ad avere paura. Era, quello, un momento di partenza, in cui c’è qualcosa di significativo che si abbandona per sempre e qualcosa che si desidera raggiungere. Così tanto significativo da essere disposti a pagare un prezzo, senza la sicurezza di riuscirci. Per farlo, bisogna sapere quello che si vuole, senza rimpiangere ciò che si lascia. Per attraversare una piazza vuota, devi fissare il punto che vuoi raggiungere dall’altro lato e lasciare il tuo corpo libero di farlo senza smarrirlo con pensieri d’ansia.
Non furono giorni tranquilli quelli che seguirono il viaggio all’aeroporto, anche perché si avvicinava il giorno della partenza per Milano, Salifizio mi aveva detto: “Se sopravviverai…”, bisognava capire il significato di ‘volare’: superare uno spazio senza toccare terra, soprattutto, senza precipitare, come sempre era successo a chi aveva provato a volare. Improvvisamente, intuii che la paura di volare non era una cosa mia. Io ero stato educato a quella paura, i miei genitori non avrebbero mai volato, a loro volta portavano il peso di un retaggio atavico, appunto ‘il precipitare’. La mia ansia non mi apparteneva completamente, era una sorta di meccanismo di difesa dalla specie, era scolpita nella natura stessa dell’uomo. Sin dalle sue origini aveva sperimentato che non poteva volare senza rischiare di precipitare, di morire. Mi sembrava di avere stabilito un contatto con qualcosa di intimo, di profondo, dentro di me. Pensavo di avere trovato il bandolo della matassa. Invece, la sera, quando stavo per addormentarmi, il pensiero di dover prendere l’aereo mi fece ripiombare in uno stato di apprensione, ma ero troppo stanco, decisi che ci avrei ripensato, mi rifugiai nel santuario della mia mente dove mai pensieri indiscreti e importuni avrebbero potuto avere accesso e mi addormentai.
Avevo ingaggiato una sfida con la paura di volare, tra qualche giorno lo spazio aperto dell’aeroporto sarebbe diventato un teatro di posa davanti al saloon. In effetti era l’aereo a dover volare, io dovevo avere il coraggio di starci dentro come dentro qualsiasi altro posto. Non ero io a dovere affrontare il vuoto, per così dire, a mani nude, era la potente macchina volante che affrontava il vuoto. Era un mezzo, ampiamente collaudato, che consentiva alle persone di volare. Un piccione spicca il volo da un tetto all’altro sul vuoto, vola sull’impossibile, su tutto ciò che è vietato a chi non ha le ali. Eppure certe scimmie volano da un ramo all’altro, come i trapezisti, senza le ali. Ma c’è il rischio di cadere. Eh già, c’è sempre il rischio di cadere, anche di inciampare camminando. Allora… Allora è paura di cadere, di non riuscire, di farsi male, di morire. Esagerato! È, piuttosto, paura di lanciarsi da un ramo all’altro come fanno le scimmie. È paura immaginata che ti impedisce di spiccare il volo. Che ti inchioda quando arriva il momento di volare. E lo fa con le dicerie, che dentro di te trovano eco nei ricordi atavici di irreparabili cadute nel vuoto, aveva ragione Salifizio, se non ti spingi oltre il panificio o la bottega del barbiere, quando arriva per te il tempo di spiccare, con un po’ d’incoscienza, il volo, di fare lunghi viaggi e di spingerti sulle rotte migratorie come il destino della tua specie ti chiama a fare, non ‘sopravviverai’. In gioventù è consentito far finta d’andare, senza partire, in cui niente si lascia e niente si perde, definitivamente; nei viaggi veri bisogna conoscere la rotta e la destinazione ed essere pronti a lasciare per sempre sicurezze e sentimenti, si prende la rincorsa e si spicca il volo senza ali, in una dimensione di libertà fino ad allora sconosciuta, senza certezze e senza rete, si conquista così la consapevolezza delle proprie capacità.
Quando ho occupato il mio posto sull’aereo, scimmie e volatili non riuscivo più a ricordare cosa facessero per volare tranquilli, sentivo il cuore battere forte, e l’avvenente signora che mi sedeva accanto non riusciva a distrarre la mia attenzione neanche con il suo delizioso profumo. Mi sentivo sudare il volto e le mani, tanto da dovermi asciugare. La signora doveva essersi resa conto del mio stato. Mi ha detto:
– Io faccio l’Hostess. Se mi permette, posso prendere la sua mano. In genere aiuta a superare la fase di decollo.
– La ringrazio, ma è più forte di me.
In effetti, riuscii a controllarmi meglio. Sentii una comprensione e una solidarietà spontanea che forse mai mi era capitato di sperimentare nella vita.
Quando gli assistenti di volo finirono di infliggermi le istruzioni in caso di ammaraggio, la mia compagna di viaggio mi chiese se andava meglio e mi lasciò la mano.
Il ritorno fu un’impresa meno eroica.
Al rientro in aeroporto, mi venne voglia di rivedere Natascia, ero curioso di verificare com’era veramente. Mi recai allo sportello ma Lei non c’era.
Quella sera scesi in strada, e Natascia era al solito posto, ad aspettare, quando mi vide accennò un sorriso, l’avvicinai e le dissi il mio nome.
– Io sono Maria – rispose Lei.

 

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