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© Diane Arbus

“(…) Celata ai profani
da una cortina di nebbia nutrita da Venere
emerge incantevole l’isola dove le Ninfe dell’Oceano
coltivano gli alberi delle mele d’oro…”
Esiodo

1. Diane Arbus: “A Clockwork Orange”

Nel 1971 un violento, innovativo, superbo film invade le sale cinematografiche, un film la cui immensa portata visiva sconvolge le generazioni con suoni, immagini e gerghi d’avanguardia.
È il 1971 quando Stanley Kubrick da vita ad Arancia Meccanica, sicuramente tra i capolavori in pellicola del regista ed il ’71 è l’anno in cui il mondo annuncia la perdita d’un’impareggiabile artista.
Con il termine artista si suole indicare un individuo la cui sensibilità e profondità d’animo son tali da concedergli la facoltà di vedere oltre il visibile, scovare nel grigiume del quotidiano note, suoni, colori degni d’esser rimembrati ed impressi nello sguardo e nello spirito di chi produce o osserva. Artista è il soggetto distante dalla banalità del vivere che sopravvive in esso donando il suo vibrante essere alle proprie, personali creazioni. Artista era senza dubbio Lei, la donna che stanca e afflitta decise di togliersi la vita con cocktail di barbiturici e taglio da barbiere. La trovarono in avanzato stato di decomposizione nella sua vasca, l’odierna Marat dalle ali di porpora, rivoluzionaria sconfitta e vincitrice, sprofondante Titanic tra domestiche mure.
Lei, Diane Nemerov, Lei Diane Arbus cresciuta nel mondo della piccola borghesia, nascosta tra variegate campane di vetro, protetta e asfissiata dalle convenzioni di classe, Lei, tenta l’emersione, prova a fuggire dopo anni di vita coniugale, anni di accompagnamento nello studio “Anne&Alan Arbus” e collaborazioni con i maggiori giornali commerciali dell’epoca (Vogue, Glamour, Seventeen..) nel 1957 inizia a conoscere la sua vocazione. Apprezza e vuol comprendere i mondi che fino ad allora le avevano impedito di osservare e frequentare. Attratta dalla “anormalità” visiterà lo Hubert Museum tra la 42^ e Broadway, il Club 82 di Manhattan, Freaks di Browning diventerà ossessione. I suoi begli occhi, fari indagatori, si poseranno sull’inconsueto, diverrà amica dei membri emarginati della società e con la sua luce, mai inquisitrice mai scrutatrice, come pubblico partecipante, entrerà e si immedesimerà nelle vite dei suoi soggetti.
Fotografa d’eccezione, in lei vive e respira l’incontrollato: non cerca pose plastiche, non cerca compostezza, vuole naturalezza, libertà di forme ed espressioni, volta la fotocamera come specchio alla ricerca di sé, della propria immagine e come specchio “magico” assorbe e proietta la realtà impressa negli sguardi altrui. Vede se stessa riflessa nei loro, si ritrova e perde nella speranza d’individuare la verità del doppio, celebri i ritratti di gemelle: è la stessa immagine ma diverse sono le espressioni, un sorriso mesto e felice, uno sguardo perso e torvo. E’ la stessa immagine che proietta il mistero del diverso e dell’uguale, della pluralità dello spirito umano, della psicosi presente nei dualismi comportamentali di ciò che si è e di ciò che si appare.
La mesta bivalenza tra la liscia, normale superficie e il bizzarro interno (riprendendo e adattando il concetto di Burgess) nelle sue foto tende al tempo stesso a presentarsi e scomparire. “Fur” (2006), film di Steven Shainberg la vedrà protagonista d’un’immaginario ritratto e Kubrick in “Shining” (1980) la citerà con le baby gemelle nel corridoio e la truce immagine della sua stessa morte.
Musa ispiratrice per i giovani fotografi dell’epoca, istruita e “nata” dalle sapienti mani di Lisette Model (1956) che la spinse a cercare il “divertimento” nella sua esplorazione, sarà ispirata da grandi nomi come Hine, Weegee, Brassai per i soggetti “diversi”; Evans nell’esasperato realismo; Frank e Faurer per l’espressionismo. Durante la sua carriera farà uso di diverse macchine fotografiche, tutte non invasive, accomodanti verso la “scena” ed i soggetti da imprimere. I suoi primi lavori verranno pubblicati da Esquire ed Harper’s Bazar con non poche contestazioni dal pubblico pagante, i titoli, saranno citazioni e rifacimenti del meraviglioso mondo di Alice “The Vertical Journey” e di Shakespeare “The full circle” richiamante la celebre frase “Chi è colui che può dirmi chi sono?”!
Ella si sporge, come ingenua Alice tocca lo specchio cerca il proprio mondo, un luogo a cui appartenere, cerca se stessa, si avvicina, ma non trova posto, familiarizza, conosce e apprezza Moondog, Miss Stormè de Lavarie, Chachacha, Lionel e ancora nudisti, sadomaso, travestiti, morti, malati, diversi. Stacca i suoi soggetti dallo sfondo, li fa risaltare, li distingue come a sottolineare che non importa il luogo in cui si trovano ma solo il fatto che essi siano e che tu osservatore sia lì innanzi all’occhiello a guardare come da una finestra o una serratura ciò che il reale, in comodità, ti sta offrendo.

“..Quelli che nascono mostri sono l’aristocrazia del mondo dell’emarginazione…” (D. A.)

© Diane Arbus
© Diane Arbus

Durante le esposizioni le sue opere più volte dovevan essere ripulite dagli sputi “dell’educata ed elegante” altaclasse americana, solo dopo anni, solo dopo la sua morte come ogni “grande artista che si rispetti” è stata apprezzata: prima la Monografica, poi la Biennale di Venezia, la grande esposizione del 2004 “Diane Arbus Revelations”. Ma quale senso può avere, mi chiedo, odiare e divinizzare? Pochi anni posson bastare a mutare opinione? L’uomo (“è apparentemente un frutto amabile caratterizzato da colore e succo, ma internamente è solo un giocattolo a molla pronto a essere caricato da Dio, dal Diavolo o dallo Stato onnipotente, pronto a far emergere la propria violenza, come un mero e semplice congegno meccanico caricato a molla” -A. Burgess- ) mi rispondo dunque, vive di false apparenze!

“… Quasi tutti attraversano la vita temendo le esperienze traumatiche. I mostri sono nati insieme al loro trauma. Hanno superato il loro esame nella vita, sono degli aristocratici. Io mi adatto alle cose malmesse. Non mi piace metter ordine alle cose. Se qualcosa non è a posto di fronte a me, io non la metto a posto. Mi metto a posto io.” (D.A.)

Come Diane aveva ben capito, la vita è fatta di istanti che devon essere colti così come nascono, senza ritocchi o modifiche di copertina, la vita è adattamento, sofferenza, è una smorfia in barba all’attesa, il primo tiro d’una sigaretta, il battito d’un ciglio e noi non siamo che poveri spettatori, inerti partecipi della bellezza che si cela dietro un coperto obiettivo, scostandolo ammireremo il mondo oltre lo specchio, scostandolo troveremo o forse perderemo noi stessi nella folle ricerca d’una meccanica identità.

© Diane Arbus
© Diane Arbus

 

2. Le Sirene del 21° secolo. Per “Il mito dell’ibridazione” di Daniela Saitta

ibridazione saitta

Postumano è il termine caratterizzante Il mito dell’ibridazione di Daniela Saitta (pagg. 80 – € 12,00, Ed. Prova d’Autore, 2012), postumano inteso come fusione-interazione tra “animalesco” e razionale con l’intento di abbattere gli umani limiti per poi valicarli. L’autrice affronta criticamente i contenuti del romanzo “Sirene”, scritto da Laura Pugno e osserva, registra ogni sfumatura trovandone le matrici nell’odierna società. Studia il mito, sottolineando l’evoluzione (o involuzione?) che esso ha avuto dalle civiltà precristiane ad oggi. È sconcertante notare come sia perdurata la costante assenza d’un piano spirituale nella figura femminile, sia essa l’ammaliatrice dell’Odissea o la barista di Joyce, la Sirena attira, seduce e conduce alla perdizione ogni “probo” essere umano che osi avvicinarla: dispensatrice di conoscenza e morte è il demone tentatore, sogno e incubo del genere maschile. Ma la Saitta va oltre, con occhio esterno e partecipe nota come in una incivile civiltà maschilista, antropocentrica, l’uomo, per mantenere vivo il suo dominio, sfrutta il genere femminile: le donne umane non procreano, sono usate e abusate. È un crescendo, dalla mercificazione della donna al meschino sfruttamento della sirena, bestia da allevamento la cui unica ragione d’essere è l’utilizzo: la carne divorata, il corpo abusato, martoriato, le figlie costrette allo stesso destino quasi a simboleggiare l’eternità della catena “uso-morte”. Ma chi è la sirena? È la donna di oggi, quella di ieri, considerata oggetto di ludibrio, merce di scambio, meretrice per “destinazione natale”. Iperbole? Forse o forse no: sarebbe ipocrita negarlo, nonostante sforzi e conquiste ella non è pienamente libera di scegliere, teme, poiché la legge non la tutela contro gli abusi (ricordiamo il caso “jeans pro-stupro”). È muta la Sirena, non canta né ricorda, non sa e dolore scorre sulla candida pelle: morte ambulanti, senza passato, nude alla mercè della brutalità umana. Se poi l’incoscienza evita la sofferenza allora bisogna dimenticare l’umano per giungere al post-umano e Samuel, il protagonista, invano cerca l’oblio: dà così vita a un ibrido tramite lo stupro e con l’ulteriore incestuosa violenza crea una nuova specie. Ma nel corpo violato, nell’abito, le donne trovano rivalsa: “Sadako… nel riscrivere il corpo, ridefinisce sé”; le sirene divorando l’uomo abbattono il loro”potere sadico”! Qual è dunque il pensiero ultimo? La deevoluzione femminile sembra l’unica salvezza per il genere umano che verrà mutato, divorato “dall’alterità”, diversità selvaggia del “mito” dominata dall’istinto autoconservatore in opposizione alla crudele viltà umana. In un mondo perduto, senza il calore del sole, devastato dal cancro, dalla mafia, dallo squallore, il canto della conoscenza, della memoria è perduto come perduto è il ricordo dell’umanità nell’uomo, la natura si rivolta e l’unica possibile mossa per un nuovo inizio è l’immersione piena nella natura selvaggia, oceano profondo in cui poter liberamente danzare con sinuosi colpi di coda.

 

3. Ad Inferos

“Raggiungi il cuore della terra, cercando troverai la pietra nascosta”.
Jung riprendendo il principio alchemico sopra citato (V.I.T.R.I.O.L.) sostiene che per affrontare la ricerca del sé ciascun individuo deve imparare a scavare, scendere nelle tenebre del proprio “io” e trovare la “occultum lapidem”, pietra filosofale che indichi il cammino, la via, radiosa uscita dal labirinto dell’esistenza. Cosa è dunque la vita ai nostri mortali occhi, se non una continua ricerca di risposte, di garanzie, sicurezze che spasmodici ci affanniamo a trovare, scambiando comuni eventi per segnali, confondendo la beltà dell’essere con l’inconsistenza dell’apparire, del (non) viver materiale?
Tra le tante domande che l’uomo si pone, la prima, che sconquassa e atterrisce è “cosa è l’amore”? E di conseguenza, “riuscirò ad avereRenata Governali una vita piena di tal dolce palpitio”? Ebbene il romanzo di Renata Governali (Maestro sei già qui – pagg. 144 – € 15,oo, Ed. Prova d’Autore, Catania 2012) cerca di offrire spunti al lettore per trovare la risposta a questi atroci quesiti. Ma attenzione, non è un libro d’amore, quanto sull’amore: in esso si possono osservare storie di uomini e donne che appartengono al nostro viver quotidiano, esseri umani che non possiedono un nome distintivo cosicchè il lettore possa facilmente identificarsi con le vicende narrate. Assistiamo alle storie di archetipi umani che, come legati da un’enorme ragnatela energetica, sono scombussolati ed elettrizzati dagli eventi esterni produzione del moto interno di ciascuno di loro: ecco così che degli avvenimenti apparentemente distanti gli uni dagli altri sono in realtà concatenati e le anime, coinvolte nelle vite passate come nella presente, si trovano ad affrontare prove che dovranno superare per abbandonare “la via orizzontale a favore del piano verticale”. Una elevazione del sé che può giungere proprio grazie ad un distacco dalla pesante materialità, distacco che condurrà all’amore puro, inteso come amore per se stessi e, di riflesso, per gli altri. Dico di riflesso poiché è impossibile per chiunque provare amore verso il “diverso da sé” finchè non si riesce ad accettare e amare quel “sé” di cui siam formati ma l’unico modo per accettarsi è conoscersi e per conoscersi si deve essere disposti ad affrontare il proprio Minotauro interiore, le paure, guardarle negli occhi e combatterle, individuare i propri limiti e superarli. La protagonista è una donna di mezza età, bisognosa d’affetto che vede nel proprio compagno la guida, l’ancora, suo limite è proprio la possessiva dipendenza che la lega a “Lui” impedendole di proseguire adeguatamente il proprio cammino. Lei aspetta, soffre, si dispera, cerca la morte, vuole rinascere, prova a credere nel suo ritorno ma l’ultimo, irrispettoso gesto nei confronti del loro rifugio (portare l’amante in casa durante la sua assenza) non le permette di assecondare la richiesta del Maestro: continuare ad attendere pazientemente il ritorno del suo Teseo. Punta dall’orgoglio, privata della sua guida, caccia l’archetipo del fedigrafo sperando però in un suo cambio di rotta. L’amore di questa odierna Arianna in realtà non è puro, anzi, risulta possessivo, egoista. Da donne potremmo giustificare il suo comportamento dicendo che il menefreghismo e l’egocentrismo maschile non devono essere assecondati specie se innanzi tal boria vi è una creatura dal cuore spezzato, sanguinante che implora attenzione e viene respinta, umiliata nella sua femminilità, costretta ad udire menzogne ed assecondare il ludibrio fanciullesco di “Lui”. Potremmo senza dubbio prendere le sue difese e schierarci, potremmo, ma non lo facciamo e non lo fa neanche l’autrice poiché, come ella stessa sostiene, non esiste “il concetto di giusto e sbagliato, esistono degli eventi che, per quanto positivi o negativi appaiano, ciascuno di noi deve vivere cosicchè possano permetterci di crescere”. Non si deve giudicare, né prendere posizione in quanto nel disegno globale certi accadimenti, son solo delle effimere sfumature che, se ingigantite, rischiano di compromettere la visione d’insieme del quadro in quanto bloccherebbero l’ossevatore al “primo piano, impedendogli la vista dall’ottavo: la visuale maestra”. È inoltre necessario attenzionare come ogni cosa sia curata nei minimi dettagli, questo romanzo è il frutto dell’esperienza dell’autrice, esperienza in cui son racchiuse verità apprese nei suoi viaggi, storie ascoltate o vissute, un esempio su tutti: la cartolina. Tra le onde, proprio quando la protagonista aveva maggiormente bisogno d’un segno, spunta un piccolo foglio di carta dalla scrittura perfettamente conservata, lo prende e scopre vite e storie ad esso legate, conosce la destinataria della missiva che gliene fa dono con la speranza che possa portare a lei la sua stessa fortuna (e così avverrà nel romanzo). Tutto ciò è realmente accaduto, Iris esiste davvero e infatti è l’unico personaggio del romanzo ad avere un volto, non un archetipo ma una donna ben identificata.
Come Iris però appare un altro individuo realmente vivente e rispetto i vari figuranti ha anch’esso una connotazione maggiormente delineata: la guida spirituale. Presente durante il corso dell’intera narrazione dà indicazioni, come Deus ex Machina, dall’alto osserva ma prontamente interviene con i suoi preziosi consigli. Avvisa “Lui”, gli suggerisce di vivere l’esperienza stando però attento al significato intrinseco: l’avventura con la giovinetta deve permettergli di aprire il suo cuore, ritrovare il fanciullo che ha perduto e rinnegato con il trauma della vedovanza, gli dà tre mesi, ma lui non ascolta, non recepisce. Teme la morte, non riesce ad accettare la naturale crescita, l’invecchiamento: si lega alla protagonista poiché in lei vede la luce della giovinezza ma quando tale luccichio inizia a lasciare il posto alla calorosa fiamma d’una matura candela lui scappa, terrorizzato dalla fine, alla ricerca d’una nuova stella a cui avvicinarsi, tramite cui accendersi. Egli infatti non brilla di luce propria, solo di riflesso riesce a trovare la fiamma dell’esistenza gioiosa che in lui però muta, diventando effimera e vuota apparenza. Sono personaggi alla ricerca, personaggi in un certo senso “malati” che rispecchiano l’incapacità dell’uomo di superarsi. Solo il maestro è al di sopra di tutti, lui osserva guarda e consiglia, una presenza-assenza corposa ma mai perentoria: non impone il suo pensiero, egli stesso afferma che non può nulla contro il libero arbitrio né sua intenzione è quella di condizionare la volontà altrui. Tra gli innumerevoli santoni e falsi profeti che riempiono la nostra società con ingannevoli promesse e banali parole il Maestro che la Governali ci presenta è la figura che ciascuno di noi aspetta. Timore reverenziale e curiosità aleggiano intorno a colui che delicato si muove tra le energie dell’Universo, attento a non scombussolarle mai poiché bisogna muoversi “con passo leggero, senza lasciare ombre profonde”. A lui ci rivolgiamo attendendo risposte ma da guida quale egli è non potrà imporci la direzione, né svelare “arcani misteri”, lui indica, accenna ma sarà l’iniziato a dover comprendere ed agire secondo la propria libera volontà. Ecco dunque l’invocazione contenuta nel titolo: “Maestro sei già qui” non è domanda, né sicura affermazione ma constatazione, consapevolezza della presenza del “filo”, conduttore luminoso del vivere umano. Lui c’è e nella sua consistenza amorosa permea il mondo senza opprimerlo, c’è e ci sarà per chi vorrà guardare, aprirsi alla sua calorosa potenza.
Con un linguaggio scorrevole e mai banale l’autrice dunque ci proietta nella vita di tutti i giorni arricchendola con l’analisi psicologica dei suoi protagonisti, dando al lettore la possibilità di analizzare e analizzarsi, di conoscere realtà ordinariamente celate ai più. Leggendo questo romanzo si viene “iniziati” ad un percorso di crescita, umana e culturale, uno stimolo allo studio di sé e del mondo, delicata finestra da cui affacciarsi alla visione esoterica del reale. Nella letteratura siam da sempre stati abituati ad assistere alla lotta tra bene e male: puntualmente vi è un personaggio demonizzato per la sua crudeltà, etichettato e bandito al quale (a seconda del tipo di scritto) vien data la possibilità di redimersi. Qui non accade, l’uomo viene dipinto nella sua totale complessità e non c’è “un lupo cattivo” da combattere né un peccatore da graziare ma degli individui che vivono più o meno consapevolmente la loro realtà e quando il romanzo si chiude con la scena di “Lui” moribondo nel letto d’ospedale con la protagonista al suo fianco, l’intento non è quello di permettere l’assoluzione finale nei confronti della ex-compagna, non c’è il riscatto poiché non c’è colpa, esiste invece l’alchimia, due anime che si riconoscono l’una nell’altra, uno sguardo, mani unite nel leggero tocco e la fusione spirituale: nel distacco c’è amore, nel distacco, il viaggio, la rinascita, propiziata dal lento incedere della pioggia sul viso.