Al momento stai visualizzando Graffi d’Africa. Dietro un’automobile: semplicemente umani.

 
Parlare d’Africa mi è difficile.
Parlare d’Africa mi è facile.
Parlare d’Africa mi sembra di parlare di me, di te, di noi. Senza vergogna.
Vergognandomi.
L’automobile, dicevo.
La persona che in Africa mi era più stretta era un contadino africano.
Più che un contadino era un vero e proprio tedesco con etica del lavoro da calvinista ma aveva la pelle scura.
Era sveglio, svelto, intelligente, capiva al volo cose che nemmeno europei e americani capivano – noi avevamo un progetto molto particolare e complicato rispetto a tutti gli altri progetti di sviluppo.
Con lui ho condiviso tutto: gioie, dolori, speranze e fallimenti.
Non sapevo più ormai se per me era un padre, un fratello o il mio migliore amico.
Aveva venti anni più di me ma avevamo la stessa visione del mondo.
L’automobile, dicevo.
Il problema era che quest’uomo, a causa del suo lavoro indefesso unito alla sua ambizione tendente al rigore, spaventava chiunque incontrasse:
-“Se questo trova i fondi per i suoi progetti ci rompe il culo a tutti quanti e ci umilia”- era il pensiero che leggevo negli occhi di chiunque.
-“E questo bianco stronzo se trova i fondi li darà a lui” – concludevano i loro occhi guardandomi.
L’automobile, dicevo.
Ecco, vista la sua dedizione al lavoro e l’essere stato ostacolato per anni, il mio amico/collaboratore aveva ormai un’irrefrenabile desiderio di emergere.
Perciò anche in automobile, stare a fianco a me che guidavo non gli bastava più.
Voleva guidare lui la macchina.
Voleva far vedere a tutti che era lui che comandava.
Smaniava all’idea di guidare quel giocattolo perchè a causa dei suoi fallimenti economici non aveva avuto più i soldi per l’automobile e per rinnovare la patente.
Perciò guidare la macchina era per lui una questione di vita o di morte.
All’inizio lo anticipavo, nelle strade di campagna fermavo la macchina e gli dicevo: ora guidi tu.
Ed era l’uomo più felice del mondo.
Poi piano piano aveva cominciato a chiedermi lui di poter guidare.
Poi faceva di tutto per tenersi le chiavi.
Poi aveva preso l’iniziativa di aprire e accendere per guidare lui la macchina quando riusciva a tenersi le chiavi.
Era difficile interrompere questa sua escalation perchè era pur sempre un padre di famiglia, un lavoratore onesto, un uomo che aveva subito tutte le ingiustizie di un mondo che premia solo chi parla rispetto a lui, l’uomo dal lavoro indefesso e dalla precisione tedesca in Africa.
Infine, un giorno esagerò.
Avevamo una riunione importantissima in campagna, con capi di polizia, capi tribali, prelati e soprattutto molti cittadini perchè erano coinvolti diversi villaggi.
Perciò a questa riunione molta gente veniva a piedi sciamando nei viottoli di campagna.
Il luogo d’incontro era distante circa 5 chilometri, cosa che a noi occidentali e ai notabili africani sembra una distanza siderale.
Molti dei personaggi invitati non avevano la macchina.
Macchina+Campagna= chi è importante va in macchina.
Dato che eravamo in campagna lui poteva guidare.
Dato che aveva le chiavi in mano lui guidava.
Dato che c’erano tutti i notabili e centinaia di persone lui era in visibilio.
Si era ingegnato a portare tutti questi notabili facendo una sorta di servizio navetta per loro, per dare loro importanza sentendosi al centro dopo una vita frustrata.
Alla fine del primo viaggio mi sentii ridicolo a fare avanti e indietro e così scesi dalla macchina dicendo ai notabili che facevano la fila per entrare che senza di me c’erano quattro posti per tratta anziché tre.
Fu così che mi incamminai a piedi inerpicandomi nelle mulattiere insieme alle persone che sciamavano per la riunione.
C’è da dire una cosa: nelle campagne africane più remote, potranno anche non capire cosa cazzo sia un tweet o il credit crunch ma qualsiasi cosa riguardi l’animo umano non sfugge a nessuno.
Feci una sorta di scandalo.
La gente si fermava e mi chiedeva perchè non fossi “con gli altri” in macchina.
Anche se erano felici che stessi camminando con loro sotto il sole e nella polvere, mentre le élites sgomitavano per entrare dentro quel barattolo di macchina, molti erano straniti.
Alcuni pensarono che c’era qualcosa di male in atto, altri la percepirono come una mia rivolta in loro favore, una specie di rivincita verso le élites.
Quando si è dentro un respiro unico le cose si sentono: laddove non si possiede niente altro che le sensazioni umane e la speranza del giorno dopo tutti respirano all’unisono.
Nell’aria c’era qualcosa di strano.
Io quel giorno parlai pochissimo nel discorso pubblico come se quel progetto non mi appartenesse.
Il mio collaboratore si sentì sotto il tiro implacabile del giudizio della folla e della derisione delle élites che avrebbero certamente raccontato quell’episodio a tutti i conoscenti per attaccarlo.
Il meeting fu fiacco.
Quella sera il mio collaboratore mi chiese scusa.
Quella sera mi ritornò la speranza.
Che lui non fosse davvero come tutti gli altri, nonostante le sue frustrazioni di una vita.
Rimane a me, a noi, a voi, di capire se siamo o no come gli altri che giudichiamo.

L’automobile, dicevo.

 

africa

 

Emanuele Casula

E' nato nel 1975. Dopo essersi laureato in Scienze Politiche a Bologna, è partito a lavorare in un Kibbutz israeliano, esperienza che ha indirizzato la sua vita verso la Cooperazione Internazionale e la ricerca universitaria. Ha lavorato come progettista, coordinatore e cooperante a un progetto che riutilizza le tecniche millenarie della pastorizia per rilanciare lo sviluppo rurale nel sud dell’Africa. Il suo primo romanzo, 2012 Obama’s Burnout, è pubblicato da Robin Edizioni (Roma, 2011).