Al momento stai visualizzando Graffi d’Africa (3). Uno schiavo sardo in Africa.

Ci sono tanti modi di andare in Africa.
Ognuno sceglie il proprio.

Feci un master a Bologna, un master incentrato sulla filantropia, sull’impresa sociale, sulla cooperazione allo sviluppo.
In realtà cominciai il master nella prospettiva di uno stage in Israele in qualche associazione che unisse le istanze israeliane e palestinesi vista la mia esperienza precedente in un Kibbutz, ma il professore israeliano che mi doveva fare da tramite, si mise invece di traverso.
Fece di tutto per non farmi fare nessuno stage in Israele. Destino?
Forse gli avevano riferito l’ultima cosa che dissi a due miei amici israeliani prima di partire:
-Voi ebrei dovete stare attenti ai premi nobel per la pace, non agli arabi con cui avete sempre convissuto in pace per secoli – gli dissi. Di questo tutt’ora ne sono convinto.
Quando sfumò dunque l’ipotesi di uno stage in Israele, mi trovai davanti a mille e mille opzioni per altri stage, ma il tempo passava e io non mi innamoravo di nessun progetto.
Dovevo trovarmi in fretta lo stage, ma la sola idea di finire in una fondazione a Bruxelles mi faceva venire i brividi: uffici, computer e discorsi sostenibili fatti dal quinto piano di un palazzo a vetri?
No grazie.
Volevo qualcosa di mio.
Volevo qualcosa di forte.
Ma il tempo passava ed ero ormai l’unico del master che ancora non aveva trovato uno stage.
Infine la mia amica che aveva passato anni in Swaziland si ricordò di un progetto sardo in Africa.
Si parlava di insegnare le tradizioni agropastorali sarde ad una popolazione africana sperduta nel sud dell’Africa.
Una popolazione africana composta prevalentemente da pastori – mi dissero.
Uno dei quattro paesi più poveri al mondo – mi dissero.
C’è da stare in campagna con contadini e pastori – mi dissero.
Si chiama Lesotho – mi dissero.
Bene – mi dissi.
Avevo trovato il progetto per fare uno stage.
In realtà avevo appena cominciato a percorrere una strada che mi avrebbe condotto verso l’ultimo dei posti in cui avrei voluto vivere.
Un posto che nemmeno conoscevo.
Un posto che fino a qualche anno prima disprezzavo.
Un posto che alla sola idea di viverci mi faceva venire i brividi.
Un posto dove la felicità altrui è la tragedia più grande che possa succedere.
Quel posto era la mia terra.
Quel posto era la Sardegna.
Ed io ho scoperto di essere sardo in Africa.
Sì.
Da quando ho messo piede in Lesotho ho visto tutta la nostra storia, la storia della Sardegna.
Perchè l’Africa ha la stessa storia di schiavitù psicologica della Sardegna.
Davanti a me il Lesotho, il popolo basotho, un popolo straordinario con una storia straordinaria, un popolo di pastori e contadini che si era preservato dalle brutture della storia isolandosi nei monti, ora ridotto alla povertà e alla miseria al punto da diventare il più grande bacino di manodopera a basso costo per le miniere sudafricane. Come i sardi.
E proprio come i sardi questo popolo pacifico e legato al divino mistero era ora corroso da divisioni interne, dall’invidia reciproca e da finora sconosciute violenze diventando così facile preda di lobby, stati e imprese che ne volevano sfruttare le risorse.
Davanti a me i basotho che vergognandosi della loro essenza agropastorale e delle loro tradizioni svendevano le loro terre, la loro gente e il loro orgoglio in cambio di sogni di bella vita.
Sono piovuto in Lesotho come un viaggio nel passato della Sardegna.
Dietro di me c’era la storia, la mia storia, la storia della mia terra.
Dentro di me c’erano i racconti di genitori, amici e parenti sardi che hanno vissuto la fame, l’infanzia senza luce elettrica, l’adolescenza con i vestiti strappati e le scarpe bucate.
Guardavo il popolo basotho fare gli stessi sogni di tutta la mia gente.
Io, umano postindustriale, vedevo i loro sogni e sapevo che erano stati anche i nostri sogni, sapevo che era giusto sognarli e viverli, che non ero lì per far la morale sul loro culo: sognare vestiti nuovi, sognare di guidare la macchina davanti agli sguardi ammirati dei vicini, scappare in motorino con la tua prima ragazza per baciarla, sognare di avere figli che studiano all’università, sognare una casa con la luce, l’acqua per lavarsi e la Tv.
Io l’America l’avevo sognata come chiunque altro in Europa, in Italia e in Africa.
Ma guardando la mia gente so che quei sogni sono bellissimi, ma che possono diventare presto un incubo se il progresso non avviene per gradi.

Così mi venne in mente il racconto del nonno di un mio amico sardo.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale gli americani avevano liberato anche la Sardegna e suo nonno era un giovanissimo soldato italiano.
Dopo lo sbarco alleato i soldati italiani erano di supporto agli americani per prendere il controllo dei posti strategici e così il nonno del mio amico.
Ma nemmeno avevano cominciato ad assistere gli americani che la loro macchina era senza benzina, perciò chiesero agli americani giusto un pò di carburante per la macchina.
Ma quei giovani americani, sorridenti e cordiali, non gli diedero un pò di carburante ma decine e decine di litri, assieme a cioccolato e sigarette.
Nessuno aveva mai visto niente di simile: una quantità abnorme di latte e miele a persone abituate alla povertà e al digiuno.
Era appena arrivata l’America.
La vera America.
Mi ricordavo di questo racconto perchè in Africa mi trattavano nel mio piccolo come io fossi l’America al punto che mi si presentavano persone con scritto il nome dell’automobile che desideravano come se io potessi, dovessi comprargliela, senza sapere che non ero nè stipendiato nè il progetto aveva fondi.
Mi ricordavo di questo racconto perchè io in Africa sapevo che non ero l’America.
Nè io, nè la Sardegna, nè l’Italia, nè l’Europa è l’America.
In Europa nessuno ha mai lottato contro la schiavitù o contro Papi e Imperatori se non in modo altrettanto settario ed estremista.
L’America è l’America. In tutti i sensi.
Perciò davanti ad un’Africa altrettanto derisa e divisa mi è venuto come un dovere.
Il dovere di dire a tutti che io non ero l’America, che l’Italia non era l’America, che l’Europa non era l’America:
Ho sempre detto a tutti dei problemi italiani ed europei.
Ho sempre avvisato sui doppi fini della cooperazione internazionale.
Ho sempre detto che i 3/4 degli aiuti destinati all’Africa rimanevano in occidente.
Ho sempre detto che in Africa erano molto più ricchi di noi in termini di risorse.
Ho sempre detto a tutti che presto il sistema occidentale sarebbe presto crollato.
Ho sempre detto loro che il vero fine della cooperazione internazionale era l’assistenzialismo.
Non mi credevano.
Cercavo in tutti i modi di fargli capire che noi occidentali abbiamo problemi sociali, economici e politici. Cercavo di smontare in loro il mito affinchè loro stessi prendessero coscienza di sè e delle loro qualità, affinchè in qualche modo cercassero la loro strada, nella speranza che si trovi una terza via alternativa e costruttiva.
Ad una ragazza africana un giorno, in un’assemblea, mentre mi parlava sognando sulle nostre automobili, sui nostri abiti, sulle case e sul nostro stile gli dissi:
– Secondo te perchè siamo diventati ricchi?
La ragazza era spiazzata, non tanto dalla mia domanda, quanto dal non riuscire a trovare le parole per spiegarmi un’ovvietà tale.
Finchè mi disse:
– Ma voi siete così, siete nati così!
– No – le risposi – noi siamo tutti figli di contadini, pastori e artigiani.
– L’Italia è questa: tutto ciò che vedi di bello viene dai contadini, dai pastori e dagli artigiani.
– Ma ce lo siamo dimenticati.
La ragazza mi guardò. Era stranita. Stravolta.
– Ma perchè, anche voi lavorate la terra? – mi chiese come avessi offeso il suo sogno.
– Ormai non più – le risposi.
– Ormai nessuno si vuole più sporcare le mani.
È così che ci siamo sporcati l’anima.

Ecco qual’è stato il mio modo di stare in Africa.
Ero in Africa per dire che io no, noi no, che non eravamo l’America.
Ero in Africa da figlio di una terra schiava e divisa, dove l’invidia, la diffidenza e la rivalità reciproche sono la principale causa di povertà. Altrochè le multinazionali o “i padroni”.
Ero in Africa per dire che noi si, che noi eravamo schiavi come loro, non padroni.
Ero in Africa per raccontargli di tutti i nostri sbagli.
Ero in Africa per chiedere a loro di crescere con noi, non di imitarci.
-Il progresso è meraviglioso – dicevo a tutti.
-L’acqua calda, il cibo, la luce, la Tv e l’automobile.
-Ma se rinunciate alle fondamenta della vostra essenza, se abbandonate in massa agricoltura e pastorizia, allora chiunque vi farà schiavi come hanno fatto con noi. – non mi ero mai stancato di dire.
Ecco quando sono diventato sardo, in Africa.
Quando ho capito che vergognandoci di noi stessi ci siamo offerti schiavi.
Quando ho capito che chi davvero ci rende poveri e schiavi siamo solo noi stessi.
Ma perchè non cominciamo ad insegnare i nostri errori?
 

Prometheus

 

Emanuele Casula

E' nato nel 1975. Dopo essersi laureato in Scienze Politiche a Bologna, è partito a lavorare in un Kibbutz israeliano, esperienza che ha indirizzato la sua vita verso la Cooperazione Internazionale e la ricerca universitaria. Ha lavorato come progettista, coordinatore e cooperante a un progetto che riutilizza le tecniche millenarie della pastorizia per rilanciare lo sviluppo rurale nel sud dell’Africa. Il suo primo romanzo, 2012 Obama’s Burnout, è pubblicato da Robin Edizioni (Roma, 2011).