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© M.C. Escher, Relativity, 1953

© M.C. Escher, Relativity, 1953
© M.C. Escher, Relativity, 1953

 

Non volevo entrare nella chiesa del Gesù, quel giorno. Ma poi mi era sembrata una bella cosa fare (anche se non era Quaresima) il giro delle sette chiese, come si usava un tempo dalle mie parti; e il Gesù sarebbe stata la quarta, dato che tre le avevo già visitate, in quel pomeriggio di giugno. Ancora tre chiese e avrei completato una tradizione che al giorno d’oggi più a nessuno, o quasi a nessuno (ed a me tra i primi), importa qualcosa, ma – d’altronde – le tradizioni sono poi sempre tradizioni.
Avevo gironzolato col naso per aria per una decina buona di minuti, affascinato dallo sfarzo d’oro di alcuni altari laterali, ma anche dalla semplicità di due piccole cappelle, quasi due nicchie ricavate a destra e a sinistra dell’altar maggiore, avviluppato in quei giorni da teloni bianchi, probabilmente per qualche lavoro di restauro. Alla fine mi ero seduto su di una sedia davanti ad una immagine di Maria nella cappelletta a sinistra, stupefatto dall’espressione, bella ed insieme piena di fiducia, del piccolo volto della Madonna. Mentre mi stavo godendo la pace del momento e, non neghiamolo, anche la frescura della chiesa nell’afa della giornata di giugno, un’altra persona si sedette lì vicino, poche sedie dietro di me. Me ne accorsi sentendo lo scricchiolare di una sedia sulla mia destra, e così, più per l’abitudine di imitare ciò che tutti fanno in una situazione del genere che non per vera e propria curiosità, mi sono girato verso destra, guardandomi dietro le spalle. Era un giovanotto, di una ventina d’anni, forse pochi di più.
Strano: mi sembrava d’averlo già visto da qualche parte. Insomma, la solita storia per cui vedi un tale per la strada e ti sembra di conoscerlo, o almeno d’averlo già incontrato, una volta o l’altra. Ma questa volta ero proprio sicuro: l’avevo già visto. Dove? Tirai un respiro profondo e mi concentrai. Proprio così. Non mi sembrava possibile ma era proprio così: identico alla foto di mio padre negli anni in cui si era sposato. Quel ragazzo era l’immagine vivente di mio padre a ventidue, ventitré anni. Stramba, la vita. Non gli assomigliavo io, a mio padre (si sa, come si dice, che i maschi prendono dalla madre), e doveva invece proprio assomigliargli quel ragazzo, che chissà chi era e da dove veniva.
Così mi venne la voglia di andare a fondo della questione; e allora, alzatomi d’improvviso e con un sorriso pieno di sussiego, mi avvicinai a quel ragazzo che, seduto lì alla mia destra, guardava, anch’egli con occhi che apparivano perduti, l’immagine sull’altare.
«Mi scusi se la disturbo…»
«Ch’a disa pura… Ehm… Dica pure…»
Mi ha risposto parlando alla nostra moda e poi traducendo, ma col nostro stesso accento: quasi che sapesse che anch’io venivo dal Piemonte; oppure era solamente stato un riflesso condizionato di uno che, soprapensiero, aveva risposto ad una domanda parlando nella sua lingua, genuina e radicata nel suo cuore…
«Non si preoccupi; sa; vengo anch’io dal Piemonte e vorrei chiederle… (già, diavolo, cosa potrei inventare che potrei chiedergli?)… vorrei chiederle da quale paese arriva, visto che lei assomiglia a…»
«Dalla Granda, dalla provincia di Cuneo, e precisamente da ***».
Non poteva essere possibile, ma la realité dépasse la fiction, era proprio il paese della mia famiglia, della famiglia di mio padre.
«Cosa ne dice se andiamo a berci una birra da qualche parte? io non sono certo uno che attacca bottone, ma mi sembra proprio una combinazione fatta apposta l’aver trovato una persona che venga da ***, e oltretutto in un porto di mare come Roma… Andiamo?»

Ci sedemmo nel déhors di un caffè e tra un sorso e l’altro di birra incominciammo a chiacchierare. Poco da fare. Parlavamo del più e del meno, ma a me quello che interessava non era di sicuro il sapere come si fosse sviluppato ora il paese o le nuove fabbrichette che si erano avviate, ma in realtà a questo io volevo arrivare: sapere chi era questo ragazzo; metti che fosse stato, putacaso, un lontano nipote o – chissà – un figlio illegittimo di mio padre. La somiglianza poteva confermarlo e, d’altronde, io mi ricordavo perfettamente tutto il parentame di mio padre: nessuno aveva un figlio di quell’età. E allora l’ipotesi di una parentela illegittima sembrava la più probabile. Chiedergli come si chiamava di cognome non ne avevo il coraggio perché, una volta saputo che di nome di battesimo faceva Michele, proprio come mio padre, avrei avuto il terrore di sentire l’identico mio cognome.
Cercavo di sapere facendo finta di nulla, ricordando, senza però dare troppo nell’occhio, i nomi dei parenti che potevano accendere qualcosa nella testa di quel ragazzo.
«Mi piacciono tutte le chiese di Roma, ma quella che preferisco è San Vitale: sarà forse che mio bisnonno si chiamava Vitale», gli dissi ad un certo punto tanto per cambiare discorso e che non sembrasse che gli facessi una sorta di interrogatorio.
«Ma guarda, anche mio nonno si chiamava Vitale».
«Già, a *** era un nome abbastanza diffuso; una volta ce n’era un sacco…», e dicendo ciò tirai fuori dal taschino l’orologio di mio nonno, quello ricevuto in eredità.
«Che strano… mio padre aveva un orologio simile a quello, anche se l’usava molto raramente e lo teneva appeso in un armadio, vicino agli abiti…»
Quante volte avevo sentito mio padre parlarmi di quell’orologio che, appeso nell’armadio della stanza da letto, adesso, dopo la morte di mio nonno, era toccato a me in eredità. Tante di quelle volte; e adesso, una volta di più mi convincevo di ciò che la mia ragione e il mio cervello rifiutavano. Si rifiutavano di credere che quel ragazzo fosse mio padre giovane, arrivato da chissà quale tempo parallelo al nostro, da chissà quale nascosta scintilla dell’eternità, da chissà quale nastro di un mondo fuori dalla storia.

Ora, da solo nella mia stanza d’albergo, cercavo nella mia memoria se mio padre mi avesse mai parlato d’un suo viaggio a Roma fatto da giovane, e pian-piano i frammenti dei ricordi si assemblavano in un’immagine sempre più lucida, sempre più evidente. Nel giugno del ’46, mi ricordavo ora con chiarezza, nel giugno del ’46 papà era stato a Roma per un paio di settimane per trovare un suo amico che aveva fatto il soldato con lui nell’ultima guerra; e poi, dopo circa tre mesi, si era sposato e dopo due anni ero nato io e dopo…
Ci eravamo dati appuntamento, per la sera successiva al giorno dell’incontro, per andare a cena insieme in una trattoria che conoscevo io in via dei Serpenti; e “papà” aveva chiesto se poteva portare anche l’amico che lo ospitava a casa sua («Un amico di naja, sai, mi ha invitato a stare qui un paio di settimane»: tout se tient pensavo io adesso; non c’era davvero più nessun dubbio).
Mi sforzavo di ricordare, di ciò che raccontava papà, qualcosa di più (ah! saperlo!… e aver fatto un po’ più di attenzione invece di rompermi i tubi e pensare ad altro quando papà buonanima – buonanima!?! – parlava…) e un pezzo per volta, un pezzettino per volta ero giunto a ricordare che papà raccontava come una stranezza l’aver incontrato un suo compaesano («Pensate, Roma è poi grande, ma trovare uno della provincia di Cuneo, e proprio del tuo paese, in tutta Roma…») e che c’era stato a cena insieme («Siamo andati a cena insieme, la sera del mio compleanno…»): la sera del suo compleanno… allora la sera del venti di giugno. Guardai il calendario appeso al muro: venti di giugno, oggi, ventuno di giugno la sera successiva… solstizio d’estate, scarto di un giorno.

Questa sera ci saremmo di nuovo visti, ma ciò che mi girava per la testa era ancora la differenza tra il ricordo di papà e l’evento concreto che stava per capitare quella sera di giugno. Intanto mi ero fatto un’idea, per quanto si vuole stramba originale strana, di ciò che mi succedeva in quei giorni. Esistono due storie parallele, due mondi e due tempi che si passano accanto, ma che talvolta, va a capire per quali motivi, si incrociano. Ora, lo scarto di un giorno mi faceva pensare ad un’altra questione: le due storie si svolgono una accanto all’altra ma muovendosi in direzione opposta, come due circonferenze che girino una verso destra e l’altra verso sinistra. Una contro l’altra, insomma, e dunque, la possibilità di entrare, di incrociarsi una con l’altra può spiegare la ragione per cui io incontrassi papà in un suo tempo più antico, anche se il momento era il medesimo: stesso giorno, stesso mese, ma anno differente.
E lo scarto di un giorno poteva spiegare il passaggio da una dimensione all’altra: come? perché? con che scopo? Saperlo…

Man mano che le bottiglie si ammucchiavano verso la fine del tavolo le confidenze si facevano sempre più intime, e così trovai il coraggio di buttare lì nuovamente il discorso sul personale.
Sì: si sarebbe sposato di lì a qualche mese, con una ragazza del suo paese, ma sarebbero poi andati ad abitare a Torino, dato che con l’autunno lui avrebbe cambiato lavoro, una grande e importante tipografia alla barriera di Nizza.
«Per quanto le voglia bene, ho ancora dei dubbi. Non sono del tutto sicuro di essere tagliato per una vita famigliare… e poi, pensare di mettere al mondo dei figli…»
«Come sarebbe a dire?», mi era proprio scappata questa osservazione, ma per fortuna lui l’aveva presa nel senso positivo, cioè proprio come un’espressione nata dalla curiosità, e così il discorso si era avviato sulla scia della famiglia e dei rapporti famigliari.
«A dirla tutta, io talvolta penso che mi voglio sposare solamente per scappare da mio padre…»
«E allora non credi che un domani (o “un oggi”, pensavo tra me e me) un tuo figlio potrebbe pensarla esattamente come te, su questo argomento?»
«Io spero proprio di non essere un padre come è il mio…»
Lo guardai con un’espressione tale di sorpresa che abbassò gli occhi e guardò il fondo del suo bicchiere dove restavano due dita di vino dei Castelli in cui potevano annegare le nostre parole di quella sera.

A tutti i costi quel suo amico romano volle pagare il gelato in piazza Venezia; e così un po’ alticci ci incamminammo lungo via Nazionale. Ad attraversare la strada non eravamo molto sicuri, con una processione di auto e di pullman che sfrecciavano senza lasciarci quasi neppure vedere i cubetti del selciato. Un bel momento ci gettammo per attraversare e quel taxi ci è arrivato addosso come una saetta; ed io, che lo tenevo per il gomito, potevo sia bloccarlo sia spingerlo, ma alla fine, pianto che lei abbia per un po’, cercherò di consolarla io, la sua fidanzata, dato che Einstein, che nella nostra dimensione è già vissuto, ci ha insegnato che, tempo e spazio, tutto è relativo.
E che Edipo vada pure a quel paese.

 

Leone Inaudi

Nato nel territorio dell’antico Marchesato di Saluzzo da una famiglia originaria della valle Maira, ma cresciuto ed educato a Torino nei ruggenti ’60, predilige la narrativa breve in italiano, in cui si presentano sempre tematiche e prendono forma figure legate in modo strettissimo alla sua terra. Tornato nei luoghi della sua nascita ed infanzia, per vivere è giornalista e collaboratore di alcune piccole (ma attive) case editrici. Non ha ancora pubblicato nulla su carta.