cop taibbiI versi a Schegge di Francesca Taibbi (Prova d’Autore 2013, € 10,00) nascono dall’innesto vivo di un pensiero partecipe della finitezza con le parole che incarnano il limite ma anche tutta la gioia della condizione umana: e sono, con manifesta insistenza, le parole del corpo, declinato, e solo a titolo di esempio di una dovizia definitoria e particolarmente concentrata sulle estremità più espressive, in viso, guancia, labbra, denti, lingua, collo, braccia, polsi, dita, cuore, ginocchia, caviglie, piedi
Sembra che la fisicità mai trascurata dalla parola della poetessa offra uno scrigno di verità da schiudere e trasmettere solo a chi – erede forse di altre letture novecentesche – ne riconosca il segreto. Intendiamo il segreto noto a chi, osservando “il mondo / di traverso”, lo guardi effettivamente “nella giusta prospettiva”, che è quella di Euterpe, vale a dire di chi sappia creare proprio a partire dalla fisicità. Come si legge in Anomale fughe, la luce plurale che lambisce “i contorni indefiniti / di un corpo frammentato” non tralascia mai quel “macigno di carne”, “quel corpo che non mente” che non riesce ad essere negato o superato se non attraverso una leggerezza che va conquistata.
Ed è, questa, la leggerezza del pensiero e della poesia come endiadi. Il pensiero poetante, radice autentica della letteratura italiana, diventa il corpo secondo di un’esistenza più prossima alla verità di roccia.
Il pensiero preserva “un piccolo mondo” di preziosi ricordi d’infanzia, un vissuto di umanità pura e di gioie intense e perdute (Il bottone); il pensiero può creare e annullare una divinità tascabile, come in (Facili?) abbandoni al dio di quartiere; il pensiero riemerge moltiplicato per anticipare il disvelamento della verità (come in Risvegli: “Pensieri sgualciti / insinuatisi sotto pelle / sgusciano tiepidi tra le dita / e dopo mille affannosi rimbalzi / emergono”) ma può anche, quando si indulga alle più effimere tra le gratificazioni e le vanità mondane e intellettuali, risultare corpo inefficace (“gli arti monchi / dei nostri pensieri”, Conferenzieri autoreferenziali), perché dimentico dello scandalo cui si accennava prima, di quel rodìo che consuma la breve temporalità umana e, con essa, la possibilità stessa del pensiero.
La poesia, puntualizzano queste Schegge di un’agile e speriamo non unica raccolta di Francesca Taibbi, non può dimenticare la propria natura composita (metaforicamente: sinestetica) che, alla fisicità di una voce che da un corpo proviene, essendone viva appendice, fonde l’immaterialità di un segno che lega ai sogni e ai significati, ma anche alle assenze più irrimediabili. Parola: “salato dolore, / acquoso desiderio / dell’assente.”
La parola non va mercificata (Mercanti di parole) perché ad essa spetta la responsabilità – condivisa con altri linguaggi artistici: Apologia di teatro – di realizzare “crudi intarsi di verità”, che pur a fatica, a tratti (a schegge?) giungono a lambire “la memoria collettiva”, a lumeggiare la psiche fin oltre i suoi naturali confini.
Le vite così si moltiplicano nell’incanto della scrittura, che tutto vivifica, ordina e ricompone: “Ricompongo ombre / accostate al mio passo” (In pegno); ma guadagnare la vicinanza al proprio passo, cioè alla fisicità della memoria, ha un prezzo ben alto che Taibbi non tiene nascosto al lettore, soprattutto in una lirica centrale che, riprendendo in sinonimia il titolo stesso della raccolta, mette conto di citare per intero: Frantumi: “Mi strapperei la pelle / a pezzetti / per ricucire quest’abito esausto / stremato / da giuramenti mancati / lacerato / da vincoli spezzati / sospeso in un limbo / in cui rinchiudermi.”
Ecco: la scrittura esige un costo che ritroviamo tutto nell’aggettivazione dolente (tutta da meditare, tra indeterminato e frammentario; ancora per esempio: acquoso, implacabile, sfilacciato, piccolo, scheggiato, impreciso, immenso ecc.) e nel campo semantico del tessuto e specialmente nel ricucire (reminiscenza, oltre che del frammentismo montaliano, anche della risarcitura di Leonardo Sinisgalli?), vera metafora strutturale e portante del libretto (“Abiuro il velo cucitomi addosso”, Femmine di facciata; “Cuori rattoppati / da pezze di carne / sanguinano fili / e ricordi / in cotone vibrante”, Scampoli; “Nel groviglio degli errori / ci sei anche tu”, Legame decaduto; “Rigurgiti parole / ti laceri le carni / ceselli la tua pelle / i miei pensieri, Poetessa; ecc.); il quale si conclude peraltro con un sacrificio del corpo che pensa e che scrive, offertosi per dire un no alla “onnipotenza del nulla” e così, data libertà all’anima di fluire oltre le vene “come inchiostro / dolente” (Dissociata), respingere l’addio come una Novella Penelope (quanta memoria di classici nelle donne di queste liriche!), vivendo con responsabilità il tempo umano, troppo umano, dell’attesa.
Certamente il corpo, già e non ancora “sopraffatto / dai turni della vita” (Riflessi), dovrà talvolta illudersi di “tacitare / gli assoluti” (Vivi con me) ma resterà fedele – confidiamo, al termine della nostra lettura – alla sua scelta originaria di perseguire non vacue e momentanee soddisfazioni ma tutta la nobiltà di una scrittura che, tra i luttuosi “turni della vita” e “quel corpo che non mente”, risarcisce e recupera, pur poggiando su fili cruenti, la dolente esperienza umana e l’amore che essa merita attraverso l’eutanasia del ricordo.
“Quante vite mi restano?” si domanda giustamente nella bella lirica In pegno la voce della poetessa. A quante voci affidare la responsabilità di quel pensiero da cui avevamo preso le mosse? I molti frammenti di uno specchio, si sa, sono acutamente taglienti; ma scompongono la luce e la moltiplicano. E dunque lo sguardo laterale di questa Euterpe, pur se breve e frammentario (o forse proprio a merito di tanta brevità), è quello che promette di svelare più verità di una prospettiva ben calibrata ma frontale.