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© R. Magritte, L'arte della conversazione, 1950

ovvero

Calvino non sempre è Calvino

La prima volta in cui presi in mano Il barone rampante[1. Il testo calviniano è citato secondo l’edizione Mondadori (collezione «Oscar») del 1993.] fu – mi pare – nell’estate tra la 2a e la 3a media, e quindi doveva essere il 1965. Non mi piacque gran cosa, come dice l’Alfieri di Bologna, e questa fu la causa per cui, lo confesso anche senza essere sottoposto a tortura, non tornai a Calvino se non molto più tardi, negli anni tra liceo e università.

Tornare al paese degli avi è un’operazione complessa e intrigante, specie se la si compie ciclicamente, e anche se i ritorni si rarefanno secondo una proporzionalità inversa: aumentano gli anni e diminuiscono i ritorni.

Il bosco – ecco la motivazione del Calvino iniziale – è sempre stato luogo sacro di ritorno. Il paese degli avi è quasi tutto in piano, ma con la sua parte vecchia appoggiata a colline boscose; il vagabondare nei suoi boschi è stata sempre per me conditio sine qua non per cui si avverassero e inverassero i miei ritorni.

Il bosco è anche luogo metafisico delle letture: ogni momento e luogo del bosco rappresenta una pagina letta, un episodio assaporato, un rimando ad altri scrittori, un riassaporare situazioni o esperienze, ed ognuna di queste sensazioni nel mio animo ritorna, ciclicamente, a Calvino ed al suo barone Cosimo.

 

«Cosa si poteva chiedere di più? C’era una piccola società nobiliare, lì intorno, con ville e parchi ed orti fin sul mare»[2. Ed. cit., pag. 66.].

Dopo la chiesetta di San Biagio “dle ronze”, perché circondata da rovi (ronze, appunto), si arrivava ai ruderi di quella che fino al secolo XVII era stata la parrocchia del paese, dedicata a San Leone Magno e a San Nicolao, e poi, finalmente, ecco il castello. Immaginare la vita di corte, con giullari e trovatori, era allora la cosa più naturale del mondo; d’altra parte alla fine del secolo XIV l’aleramico marchese Tommaso III del Vasto, lo riportano anche le storie di letteratura francese, era o non era stato l’autore di un poema epico cavalleresco dal titolo Le chevalier errant? Le mura del castello erano coperte di edera (il brassabòsch, che abbraccia, appunto, nelle sue spire i tronchi degli alberi e, come un serpente della bolgia dei ladri, li avviluppa e li fa suoi), ma il cortile segnava le sue pietre di muffa e di erbe e di fiori e di pietruzze colorate: color del cielo e color del mare, che ci aprivano nel cuore viste di onde marine di Provenza, illudendoci che il Piemonte potesse essere, a differenza della Liguria (Italo: tu potevi), una Provenza, ma senza il mare.

 

«Si portava sopra i posti dove c’erano i contadini che zappavano, che spargevano il letame, che falciavano i prati».[3. Ed. cit., pag. 78.]

Le rade cascine di collina si appoggiavano pigre ai fianchi ombrosi di boschi di frutta e di castagne, ma aperti poi all’improvviso su brevi pianori fertili di granoturco e di patate; ogni cascina uno o più cani, che nelle notti di plenilunio ululavano al selenico disco di perla; cosa le dicevano i cani, quali lamenti d’amore trascinavano nei loro lamenti ignoti agli umani? Lavoro senza sosta di uomini, donne e bambini nei boschi e nei campi, fenogliescamente sventurati (maloros, si dice da noi, essendo la disgrazia ël maleur, la malora, appunto), se non per la domenicale sfida al pallone elastico (balon dij pugn), che come eroi di corride o di pugili cantati da Ernest (se non ci credete leggete la fenogliana novella del campione Augusto Manzo che occupa il terzo capitolo di Il paese[4. Lo si può leggere in Un Fenoglio alla prima guerra mondiale (Torino, 1973).] e confrontatela, tanto per fare un esempio, con La capitale del mondo nei Quarantanove racconti) aprivano il loro cosmico pessimismo ad una goccia di sorriso, più di naso e di occhi che non di bocca.

 

«specie alle donne che lo prendevano per uno spirito folletto»[5. Ed. cit., pag. 79.].

Le donne, l’eterno femminino dei nostri boschi: le madri piangono i dispersi in Russia e le figlie fuggono da vite serrate in zolle argillose e vesti lucenti, timbrate il giorno di festa da spille quasi preziose ereditate da vecchie zie che hanno visto, dalla Crimea in poi, partire i fratelli per guerre in terre lontane e sconosciute, per posti dai nomi schioccanti e micragnosi di vocali. Masche/fattucchiere che interpretavate il nostro senso di mistero e di magia, di volpi e di gatti e di code di vacche tra loro legate! da qualche decennio studi sociologicamente serrati, figli di un realismo socialista più vero del vero Ejzenštejn, vi hanno rinchiuse in spiegazioni logicamente razionalistiche che vi hanno trasformate nelle vittime contadine del perbenismo piccolo borghese di una società che non tollerava persone aliene ai suoi riti… Ridateci la semplicità delle masche di una volta, il sovrannaturale, la magia e il senso di mistero che aleggiavano nelle storie narrate nelle veglie, sulle aie d’estate e d’inverno nelle stalle. Non rubateci il sogno di un tempo lontano…

 

«Andava alla fontana, perché aveva una sua fontana pensile, inventata da lui, o meglio costruita aiutando la natura»[6. Ed. cit., pag. 87.].

Dla calandra si chiamava quella fontana a mezza costa della collina di Santa Brigida. Testimonianza, forse, di un vecchio nido di calandre (la alauda calandra, uccello simile all’allodola), da cui anche il nostro grande Edoardo derivò forse il suo gentilizio, riproducendo se stesso poi in favola esotica di animali parlanti nella lingua dei padri, lasciando per qualche attimo riposare le eroine guerriere del medioevo romantico ed i generosi branda (così da noi si chiamavano i sanfedisti) e i giacobini che correvano la piana, ricca d’acque, solcata da Po e Varaita[7. Si vedano varie opere di Edoardo Calandra, dalle Favole morali in piemontese (in cui parlano gli animali, ed in una gli uccelli, tra cui, guarda un po’, una calandra) al romanzo La bufera (1898), ai racconti di Vecchio Piemonte (1895) o di A guerra aperta (1906).]. E Calandra per me era una celtica Bandusia, splendidior vitro, dove accucciato in reverente timore e tremore potevo cogliere il senso di mistero (Dio è Neutro, e quindi né Maschile né Femminile?) dell’Universo, ma anche sperare di cogliere un guizzo di coscia nuda o di sottile caviglia della Ninfa.

 

«Tra la gente accampata nel bosco, c’era a quei tempi tutta una genia di loschi ambulanti: calderai, impagliatori di seggiole, stracciari, gente che gira le case, e al mattino studia il furto che farà alla sera»[8. Ed. cit., pag. 106.].

Passando davanti alla chiesetta campestre della Robatera (robat era l’attrezzo per trebbiare, continuato da noi anche nell’onomastica con cognomi quali Robatto o Rubat), dove ai tempi si accampavano gli Zingari, mio nonno, tornando insieme dalla passeggiata alla cascina detta del Lazzaretto (Peste del 1630, anche dalle nostre parti hai picchiato duro, mersì a les Gaulois, truppe ora di occupazione ora di alleanza secondo gli umori, e le alleanze, del duca), mi faceva ogni volta notare la bellezza dei cavalli e la cura ad essi riservata, splendide bestie, vera ricchezza dei figli del vento degli anni miei ragazzi: non deboli immigrati dall’ormai purtroppo divenuto sordido oriente che il nostro scostumato capitalismo intellettuale ha corroso nelle sue linfe più preziose, trasformandoli in accattoni o pretenziosi fannulloni, ma sinti eredi di parlate sanscrite e loquenti puro piemontese di un tempo che fu. Le Tre Marie del mare, Camargue e Provenza marina, Catari assediati in rocche prestigiose di fantasia, roghi e cavalli, carri e calderai, giostrai e signori del vento. Mais ou sont les neiges d’antan?

 

«– Grazie, signor padre… Le prometto che ne farò buon uso.

– Addio, figlio mio –. Il barone voltò il cavallo, diede un breve tratto di redini, cavalcò via lentamente»[9. Ed. cit., pag. 132.].

Cosa aggiungere d’altro, se non rimpianti di parole non dette e di gesti non fatti?

 

«vossignoria è da reputarsi fortunata a godere di questa libertà, la quale non possiamo esimerci dal comparare alla nostra costrizione, che pur sopportiamo rassegnati al volere di Dio»[10. Ed. cit., pag. 154.].

Gli oppressi sono uguali, nei tempi e nei luoghi. Spagnoli per Cosimo, Ebrei per me. Una lapide all’interno del municipio di Saluzzo ricorda come quella comunità ebraica sia stata, in proporzione al numero dei suoi membri ante ultima guerra, quella che di tutte in Italia ha pagato il prezzo più alto della barbarie (Lo avrai, camerata Kesselring… con ciò che segue inciso su di un’altra lapide)[11. All’interno del municipio di Cuneo e dettata, questa, da Piero Calamandrei.]. Ma anche i ricordi di città: di un San Salvario ben diverso da quello all’onore della cronache, nere o di movida (forse, ahimè, cambia poco la sostanza dei due concetti…), del giorno di oggidì. Un San Salvario di compostezza borghese, ma anche sapido di minoranze e di intellighentsia, conservante all’ombra dei suoi viali di ippocastani ricordi e testimonianze di ebraismo e di valdismo, di tolleranze e di luccicante sfolgorio intellettuale, senza che nessuno dovesse mai ricordarci, con arrogante senso di superiorità, i nostri doveri di rispetto verso gli altri, di tolleranza, di amicizia, insomma in una solo espressione: di bel deuit torinese… Oppressi gli spagnoli di Cosimo, oppressi i nostri due piccoli ghetti, la Varsavia del mio cuore, quello metropolitano e quello provinciale, in un’unica stretta malinconica. Sempre vivo e vero sarà il tuo esempio, Primo, le tue parole sagge e misurate nel ricordare i martiri della piccola patria del nostro ricordo[12. Si vedano, di Primo Levi, in modo particolare le testimonianze relative a personaggi (quali i fratelli Artom o Sandro Delmastro) di altissima dirittura morale e intellettuale riportate in Il sistema periodico.].

 

«e tutto tutto tutto ricordava la ragazzina vista a dodici anni sull’altalena il primo giorno che passò sull’albero: Sofonisba Viola Violante d’Ondariva»[13. Ed. cit., pag. 184; e, già prima, «Appesa al ramo d’un grande albero vicino dondolava un’altalena, con seduta una bambina sui dieci anni» (p. 19).]

Chi non darebbe almeno trenta talleri per ritrovare il primo amore, per poter dire – finalmente – ciò che si è sempre sognato di dire; dirlo, ma con occhi diversi, con esperienza di vita vissuta, ma sempre con lo stesso cuore di un tempo…

 

– Non cambierò mai idea, – fece mio fratello, dal ramo.

– Ti farò vedere io, appena scendi!

– E io non scenderò più! – E mantenne la parola[14. Ed. cit., pag. 15.]

[…]

 

«Il cielo è vuoto, e a noi vecchi d’Ombrosa, abituati a vivere sotto quelle verdi cupole, fa male agli occhi guardarlo […] Poi, la vegetazione è cambiata […] le piante antiche sono arretrate in alto […] Ombrosa non c’è più. guardando il cielo sgombro, mi domando se davvero è esistita.»[15. Ed. cit., pag. 262; e, già prima, «Ora, già non si riconoscono più, queste contrade.» (p. 34).]

Una vita intiera tra questi due passi di un romanzo. L’inizio e la fine: la ribellione dell’adolescenza e la malinconia dell’età adulta che sfuma ormai verso la vecchiaia, e poi la morte. L’albero che c’è e la terra della nostra giovinezza che è sparita… sempre che mai sia esistita veramente e non solo nei nostri pensieri.

 

© R. Magritte, L'arte della conversazione, 1950

 


 

Corto Mantese

Dietro questo pseudonimo si cela un personaggio di media cultura, ma di vastissime (e disordinate) letture. A cavallo tra Piemonte e Provenza, tra le montagne ed il mare, le sue brevi prose d’arte rievocano letture e tradizioni, cultura letteraria e sapienza popolare. Vive tra le contraddizioni e le antitesi, ossimoro umano in cui gli opposti dovrebbero placarsi, riunirsi e trovare la loro realizzazione.