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Anche quest’anno non ce l’ho fatta a dire di no a mia madre e per questo sono qui a casa sua a passare con lei il primo giorno dell’anno nuovo: con lei e con tutti i ricordi, i suoi e i miei.
La prima parte della giornata è, per fortuna, già passata. Ma la prima parte è anche la più facile a passare: il pranzo aiuta a far scorrere la polvere del tempo con i suoi discorsi molto concreti su quello che c’è da mangiare e su quanto ha dovuto faticare lei per prepararlo. Ecco. Il pranzo è passato e, secondo le nostre abitudini, sono venuto nella mia stanza; quella in cui dormivo prima di andarmene a vivere per conto mio; quella in cui tutto è rimasto uguale (come se vent’anni non fossero passati), non fosse che per qualche libro o qualche disco che ho riportato io da casa mia, poiché là li avevo doppi e lo spazio non è certo tanto nella mia casa nuova. E allora ecco alcune tessere nuove di un mosaico che sembra non finire mai, neanche se questa stanza fosse sempre la mia ed io ci tornassi solo ogni tanto, ma non come in un posto ormai straniero, ma piuttosto come nel mio posto sicuro dopo un viaggio fino ai confini del mondo.
Ho il tempo di prendere un libro di uno dei miei autori preferiti, in cui l’esteriorità dell’uomo sembra essere restituita alla sua misura più vera, la più chiara, la più ovvia, dato che si presenta con l’aspetto della corazza di un insetto; oppure, in quell’altro caso proposto dallo stesso, è la bestia che si presenta con l’intelligenza umana, anche se chiusa nella pelliccia di uno scimmione. Allo stesso modo suo, di K., non voglio dimostrare assolutamente niente, nella mia vita, non voglio convincere nessuno di nulla, ma solamente spiegare ciò che sembra essere l’esperienza nel suo farsi, nel suo apparire di tutti i giorni: una cosa che è lontanissima da ciò che gli uomini hanno la presunzione di definire verità. Ho appena il tempo di prendere in mano questo libro che mia madre entra con il caffè. È già una fortuna che adesso abbia imparato a bussare prima di entrare. Anche se adesso non me ne importa quasi più nulla di questo suo modo di agire, una volta era uno degli atteggiamenti che più mi facevano andare in bestia. Pensare che una persona, fosse ben stata mia madre, potesse entrare così facilmente nei miei pensieri, nel mio cuore, allo stesso modo di come entrava nella mia stanza.
Mi offre il caffè ed io so già anche le parole che mi dirà. So già che la macchinetta del caffè non ha un sapore buono, perché lei lo fa raramente da quando mio padre non c’è più. So che è una delle sue maniere per entrare nell’argomento senza farsene accorgere, poiché sa bene che io non ho piacere che ne parli. E lei sa anche che io farò il mio solito gesto con la mano per dire che davanti al destino non c’è nulla o nessuno che possa fare qualcosa.
È un’abitudine che mia madre era stata obbligata a prendere dopo d’avere sposato mio padre, quella del capodanno, poiché lui era un gòi, un gentile, e lei si era adattata a ricordare anche questo giorno, anche se forse – ma di questo non era molto sicura – ciò la contaminasse. D’altra parte, se il Signore d’Isacco e di Giacobbe si fosse dovuto offendere per questo fatto, si sarebbe anche dovuto offendere perché lei aveva sposato un gentile, e senza soldi per di più, le dicevo sempre io per farla arrabbiare quando il ricordo di papà diventava troppo angosciante. E questa abitudine l’avevamo mantenuta ugualmente, anche se papà non c’era più: non che festeggiassimo il capodanno, ma festeggiavamo il ricordo di papà, e in questa maniera la coscienza religiosa di mamma rimaneva “della legge”.
Per bere il caffè mi siedo sulla poltrona che c’è vicino al letto: è l’unico lusso, la poltrona, che mi permettevano i miei nella mia stanza. La scrivania, il letto, la guardaroba, le librerie e la poltrona, collocata in modo che io potessi ascoltare comodamente la musica. Un altro lusso, questo, che mi concedeva mia madre, dato che mio padre lo considerava uno spreco di tempo al posto dello studio e non mancava mai di sottolinearlo tutte le volte in cui io portavo a casa un qualche voto magari non troppo bello.
Per bere il caffè mi sono seduto sulla poltrona vicina al letto ed ho messo il disco della vergogna, il disco che io ascolto proprio, forse, per fare un dispetto a mia madre o forse per dimostrarle che la musica non si abbassa alle piccolezze degli uomini e può parlare a tutti senza essere legata ad una razza o ad una lingua. Wagner/Nietzsche… sono nomi, nient’altro che nomi, e noi invece siamo pensieri e ricordi. Also sprach… Così parlo io, così vorrei parlare io, ma poi abbasso quella musica pensando che forse mia madre riesce ad ascoltare anche i miei pensieri.
E mia madre entra, dopo aver bussato, a dirmi che la notte scorsa ha sognato il nonno e la nonna. Li ha sognati che tornavano dal campo, e lei diceva loro che era un miracolo e che Nostro Signore davvero non si era nascosto e che Lui aveva davvero pietà di noi se aveva fatto un miracolo del genere, il miracolo di riuscire a far loro conoscere il nipote, quello che loro due non avevano mai conosciuto… Ascoltare questi discorsi strambi di mia madre mi fa venire stizza, ma poi mi rincresce e lei mi fa pena e penso come sarebbe stato meglio che avessero preso anche lei: così avremmo evitato entrambi di soffrire, lei ed io, visto che non sarei neppure venuto al mondo… È solamente una sofferenza per i nostri pensare che da morti si stia forse meglio che in questo mondo?
Poter avere la fiducia semplice e spontanea di mia nonna, la madre di mio padre! Poter avere l’orecchio di un Dio in cui poter rovesciare i nostri guai, ma soprattutto avere qualcuno a cui chiedere perdono e non dover così appoggiarsi alla morte ogni giorno, con il rimpianto che ti copre di dolore la coscienza, con l’affanno che ti trapassa il cuore ogni volta che tu pensi a ciò che è male o che almeno male ti sembra…
Mia madre entra a chiedermi se voglio una tazza di the, visto che tanto lo fa per sé. Devono essere le quattro, forse. È già tardi. Alle cinque ho detto a C. di telefonarmi per combinare di vederci stasera o magari domani sera. Che vada per il the: ho sete e la foschia che ormai avviluppa le piante del giardino pubblico di fronte a casa sembra solamente far risaltare le mia sete come fosse la voglia di farci avviluppare anche noi dalla nebbia della malinconia e del rimpianto. Ah! Poterci essere stato lì anch’io, e così consigliare a mia madre di non sposare mio padre quando lui glielo aveva chiesto: come poteva essere che riuscissero ad andare d’accordo due persone tanto differenti come loro? Un gentile di una famiglia di paese con una ragazza venuta da una vecchia famiglia “della legge”: come sarebbero riusciti a fare la medesima strada, con le medesime fermate e le medesime partenze, le medesime salite e le medesime discese, giorno dopo giorno, anno dopo anno? Hanno fatto persin troppo, loro due, ma in compenso il peso l’ho portato io. E lo porto ancora adesso.
«Lo sai che tuo cugino E. è morto?» Eh, già che lo so. Sono sei mesi che è morto, ma mia madre me lo chiede tutte le volte che ci vediamo, da sei mesi in qua. Me lo dice perché vuole – ormai l’ho capito – farmi pesare ogni volta la situazione di mio cugino e la mia. Non vuole ammettere di farmi ricordare il fallimento del mio matrimonio, e così mi ricorda mio cugino, che si era sposato e poi divorziato, di modo che anch’io mi senta la mia parte di dolore ed affanno.
Ho preso il the: adesso si tratta di far passare ancora qualche istante, aspettare la telefonata di C. e poi, con i gesti tranquilli di chi non sa più cosa dire o cosa fare, salutare mia madre e darle appuntamento alla settimana prossima, sempre che lei abbia bisogno che io passi a trovarla, altrimenti…
Perché C. non telefona? Qualche disguido? Forse suo marito o i suoi figli le hanno messo qualche inciampo?
Ho bisogno di vederla e di parlarle, di dirle cose di nessuna importanza, sciocchezze qualunque, basta di non dover pensare, poiché stare una giornata con mia madre mi fa sentire, ogni volta di più, tutto lo sforzo del vivere, e il rischio del pensare…

San Salvario, Torino

Leone Inaudi

Nato nel territorio dell’antico Marchesato di Saluzzo da una famiglia originaria della valle Maira, ma cresciuto ed educato a Torino nei ruggenti ’60, predilige la narrativa breve in italiano, in cui si presentano sempre tematiche e prendono forma figure legate in modo strettissimo alla sua terra. Tornato nei luoghi della sua nascita ed infanzia, per vivere è giornalista e collaboratore di alcune piccole (ma attive) case editrici. Non ha ancora pubblicato nulla su carta.