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Nei tempi in cui tutto era animato da animali e l’uomo non aveva ancora una sua categoria, il Dubbio soleva presentarsi sotto spoglie di gatto nero con baffi verdi e occhi blu. Dio solo sa perché quei colori, tra concerto e contrasto, e perché la scelta della felinità gattesca, a spiraglio di improbabili preclassifiche, infatti, non sapremo mai se s’accorpassero, anche quella volta, in unica progenie, dalla lince alla tigre e altri. Ognuno, comunque, sia libero di fingere tra specie e sotto, e sia libero, oggi come oggi, di dare ai simboli la propria misura sull’intenderne pio messaggio o trista minaccia.
La premessa non dice perché (lei stessa) si astiene dall’annunciare. Un verbo, l’annunciare, caro ai grandi tragediografi greci, che ne fecero uso e abuso al momento di tagliarla corta con quanto, nei loro drammi, non lasciava speranza alcuna alle conclusioni. E, tra il finire a coda di topo e l’affidare alla mannaia dell’ annunciatore, sceglievano quest’ultima, delegando tutto all’anghellus. Che la raccontava sì, ma a modo proprio. E nessuno avrebbe potuto, darrighianamente, dire d’aver visto con i propri occhi e sentito con le proprie orecchie, su quanto sproloquiava, di volta in volta, l’affannato anghellus. Sempre appolmonato, appunto, per via del correre, inseguito dall’urgenza di dover annunciare ad alta voce quanto gli dèi gli avevano concesso di vedere, udire, riferire.
Ed ecco il Dubbio, qualche volta sornione, ma quasi sempre imbronciato, sotto le sue spoglie di gatto dalle verdi vibrisse. Orfeo sbranato dalle Menadi? Perché no? Perché non crederlo? Qualche dubbio a rumore di fondo non impedisce che qualcosa resti di cui non dubitare. Andate a indagare quali recondite isterìe avevano spinto le astiose a tanto estremo. Un dubbio sospeso al filo sottilissimo dell’appiglio a future scoperte. Se sia lecito immaginare future scoperte, di cosa? E torna il Dubbio. Così per quella storia oresteo-eschilea, complicatissima, di incesto, e quelle altre di più, in Sofocle. E ancora, e sempre “al peggio non c’è fine”, di Euripide. Altro che Dubbio e gatto nero.
Poi le cose sembrarono cambiare, quando dall’occhio per occhio e dente per dente venne stappato lo spumante del porgere l’altra guancia. Il Dubbio si vestì di Trinità, l’anghellus fu un Angelo, con credenziali Celesti per funzioni d’ambasciator che non porta pene.
Et nunziavit Mariae… Et verbum caro factum est.
Ma invece di semplificarsi, le cose si complicarono. Tanto che il Dubbio si sentì costretto a cambiare casacca, baffi e cromìe. Perché? Perché jeratica, come facciata di tutte le facciate, era arrivata colei che lo avrebbe fronteggiato imperterrita: la Fede.
Squillano trombe invisibili e salta il greve lastricato basaltico dell’ avello: è risorto è risorto! La Fede ha ali lievi di Spiritosanto e folgori impietose, infallibili, che disarcionano il più temerario tra i Cavalieri delle contea di Tarso.
Il Dubbio rimpiange i suo tempi di gatto nero, rassegnato sotto altre menzognere spoglie, che deve, suo malgrado, condividere, ora con il piccionastro delfino, ora con asini e buoi alle mangiatoie; ed è, per sopraccarico, tormentato da lancinanti spasmi provocati da nevroticità uretrali, che gli stimolano, e al contempo gli bloccano, isteriche minzioni da ansie per l’attesa dei Magi, portatori protervi di ori, incensi e mitra. Questi ultimi in modelli a saliscendi, dai kalascinkov agli stummi-stummi dagli acciai stralucenti di riverberi provocati dalla Stellacometa su Betlemme.
Tra “è nato” ed “è risorto” brevi mesi bruciati dal Carnevale e dalla Quaresima, ed ecco il consummatum est, a bilancia dell’ovest, perché ogni alba su questa terra è destinata al tramonto.
Il Dubbio resta tra l’asino, il bue e il Bambino Gesù; Lui sì, quest’ultimo, innocente, intento a dubitare fino all’ultimo momento, del tradimento di Giuda, della Giustizia di Roma, della debolezza di Pietro, della puntualità del Gallo.
Povero Cristo! L’estremo rigurgito, già d’acido cotto (effetti maldigestisti dell’ultima cena), gli venne stimolato dal frusciare della tunica di Ponzio Pilato, quando a passi dubbiosi, incertissimi, si avviava dallo sciacquone al lavandino pretorile. Il Dubbio si era dileguato; era rimasta la certezza della morte sulla croce. Tanto di cappelo alla fede nella livida livella.