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J.W. Waterhouse, Una Sirena, 1901

J.W. Waterhouse, Una Sirena, 1901

 

“Non ho più parlato. Nemmeno una parola. Anche se a volte la tentazione… a volte le parole mi urlavano in gola. Da allora la mia lingua è stata muta, per mia scelta, mia scelta. Tra poco il silenzio coprirà tutto per sempre.”
Il dottore lesse stentando, interpretando le righe che la vecchia morente aveva scritto con mano incerta al bordo d’un giornale ingiallito. Fissava stupito il volto mostruosamente rugoso della donna. Non immaginava che la vecchia possedesse quel sentimento, non immaginava nemmeno sapesse scrivere.
La mano della morente si fermava sul tremore angoscioso e infantile dei segni. “Sto morendo, lo so.”
Questo non stupiva l’anziano dottore, c’è una coscienza di chi è vicino alla morte. La coscienza di chi s’affaccia a un precipizio, misura la terra dietro ma prova già il vuoto avanti a sé. L’uomo guardò sopra gli occhiali la vecchia, straordinariamente vecchia, arrivata alla fine, la mano scheletrita che s’affannava a scrivere sui bordi del giornale. D’un tratto sentiva stranamente che poteva essere arrivato anche lui a una fine. Forse era colpa dell’ennesima morte vista dalla stanchezza dei suoi occhi di medico, oppure era la somma improvvisa d’una vita condotta da troppo tempo in un sobborgo più vicino all’acqua che alla terra, più al mare che alla solidità della terraferma. Gli occhi presero l’espressione tra le lenti, un’astrazione dietro la quale si nascondeva così spesso la sua faccia.
Il polso della donna batteva tra le sue dita, ma adesso lo sguardo andava alla propria mano. Anche quella mano era rugosa, certo non oltre il limite della morte e della natura come la mano della vecchia, però anch’essa percorsa di vene, di geroglifici da decifrare. Eppure una volta quella mano era stata giovane, sottile e nervosa, indecifrabile anche allora. Un giovane medico arrivava nel sobborgo di mare un giorno remoto, trasportato da un senso senza parola come la bocca della vecchia, in bilico come la vecchia morente. Il dottorino aveva camminato a lungo tra i moli abbandonati e le barche in disuso prima di decidere, aveva allungato gli occhi sulle marine, sulle rocce a strapiombo sul mare, le calette, come davanti a un precipizio, misurando la terra dietro di sé.
D’un tratto la sua mano e quella della vecchia moribonda si fondevano in un solo arto. – Tu sai scrivere! –
“Sì… una maestra… non so se per un gioco, o una simpatia, oppure una strana consegna, sotto la lampada, certe sere… Ero già donna. Da donna a donna. Lei piegava la testa su di me nello sforzo di farmi capire. Vedevo i suoi capelli, di stoppa, capelli di bambola distrutta da mani di bambini, pupazzo da spazzatura, cadevano sulla mia faccia. Mi teneva le dita che tentavano di scrivere, me le guidava… Così difficili… strani… quei segni… Però, a poco a poco spuntava un mondo. Io lo volevo, e lei s’era ostinata a darmelo, la bambola gettata via. Mi ha insegnato… Ostinate, tutte e due…”
– Sai scrivere, ma non hai più parlato! E non sei muta, tu puoi parlare! Hai scelto tu di non parlare un giorno! Non ricordo quando è stato. – Adesso, basta, è assurdo, non ti è più facile parlare che scrivere? Mi senti?
“Troppo tempo, troppo tempo muta…” Scribacchiarono le dita della vecchia.
L’altro tentennò, alla fine annuì. Un giovane dottore era venuto in silenzio, tra i silenzi del mare, delle casine, dei moli ammuffiti d’alghe, senza vita, degli stradoni d’ulivi che portavano alla città, al grande porto, attracco di traghetti, tra silenzi di bambini, e di uomini segnati dal sole, di donne segnate da lutto, o da dolcezze, da disperazioni di maternità. Il dottore annuì ancora trasognato, seduto al bordo del lettino. Gli occhiali ebbero un sobbalzo.
“Mio figlio, dottore… la sua dannazione… la sua, la mia… devo scriverlo…”
Una dannazione, rifletteva il dottore annuendo, registrando senza intelligenza il battito del polso della donna, una dannazione, il silenzio, l’ambulatorio deserto a certe ore, il caffè guardando dalla finestra, le letture notturne con il libro aperto sulle ginocchia e il sigaro fumante sul portacenere della scrivania. Certe letture, la mattina, si mescolavano alle realtà dei moli dalla finestra, per un dormiveglia, forse felice, forse solo dimentico.
Il dottore leggeva le parole della vecchia. Ma a ogni frase si aggiungevano le proprie, le parole dei libri della notte. E tutte le parole sbiadivano nella stessa vaghezza del mattino, quando la sua finestra s’apriva sulla luce del faro che annacquava i vapori del porto.

Il canto del mare imperversa, certe sere che non si vuole ascoltarlo. Nuvole oscure dai bordi elettrici balenano nel violetto dell’orizzonte, e il mare attorciglia onde, e torbidezze di musica al vento. Il mare monta, cambia colore, ricade, sfa ogni colore e ogni forza fra i natanti del porticciolo, nel limo di petrolio e rifiuti. Gli alberi e le sartie congiungono il loro ritmo scricchiolante a quel soffio di umide labbra del mare. La canzone è pericolosa, affidata ai silenzi più che ai suoni, ai tonfi e agli scrosci più che alla musica, al ritmo più che alla melodia. A volte c’è una donna sola che canta nel vento, come cantano le sirene in mare aperto.
Il giovane si stendeva oltre il limite del molo fino all’acqua, lui la sentiva, la torpidità di canto, era la stessa torpidità del volo dei gabbiani al tramonto sopra la sua testa, della passeggiata pensosa del dottore tra i moli prima di cena, tra alberi caracollanti di barche e gabbiani.
Il vecchio greco, lo straniero, lì vicino, ritirava le lenze dal molo, sbirciava verso il giovane. Dondolava la testa come a mettere in guardia, ci si casca, nell’acqua, a sporgersi così, e quest’acqua non è più né mare né acqua. Pericoloso anche per te, anche se t’hanno messo un nome di pesce, “grongo” come il pesce, e nuoti come un pesce. I gabbiani volano bassi, temporale, mormorava la voce del greco. Lo so, ragazzo, questo mare che non è mare incantesima, scuoteva il capo, e borbottava per ascoltare la propria voce, voce umana e non canto d’acqua che non è acqua. Borbottava che non si tira su niente tra i cassoni del molo. Un mormorio di pescatori approvava alle spalle tra le reti da riparare.
Il dottore si fermava, soliti discorsi, sorrideva rassicurato, con il solito sorriso astratto.
Non si pesca, i pescatori appoggiati ai muri sputavano in terra, l’acqua è un deserto. E le barche di slavi e greci rubano il pesce fuori dalle loro acque. Mare amaro.
Temporale, pensava il greco.
Discorsi ascoltati, sorrideva il dottore.
Anche il vecchio greco sputava per terra, ma per il pericolo che sentiva nella voce d’incanto del mare.
– Tu le hai viste le sirene del mare? – gli chiedeva beffardo grongo. Le hai sentite cantare? Strano, la voce di grongo aveva più violenza che beffa, fissando l’acqua, tentando d’arrivarci con un dito. Le hai sentite cantare?
– Quando si è ubriachi… – Il greco si schermiva, una piega gli solcava le labbra tra le pieghe che il sole aveva inciso nella faccia. Posava con calma lenze e secchi, e borbottava contro il tempo che non permetteva di pescare né al molo né in barca.
– Allora? Le hai mai sentite in mare, le sirene? – con la strana violenza, il giovane.
Il greco si nascondeva dentro il suo cespuglio di barba e capelli bianchi. Voltava la faccia dove avrebbero dovuto essere le coste greche, il suo paese, oltre il mare, il più antico dei mari, il più popoloso, il più gonfio di pericoli e sirene. Le pupille sparivano quasi cieche. Si allontanava parlando fra sé, recitando scongiuri in una lingua bastarda. Grongo gli sbraitava dietro. Ma l’altro non si voltava, mormorava che si sentono l’ultimo giorno, le sirene, se si sentono, se qualcuno le sente. Sussurrava che si diventa pazzi a sentirle.
Il lampo si disegnava senza rumore in lontananza tra nuvole.
Qualcuno diceva d’averle viste, le sirene, dolci come madonne, in certi giorni di mare piatto, traditore. Affioravano come scogli, sorridevano invitanti, ma appena muovevano le labbra, tra l’acqua d’olio, la bocca scopriva denti di murena. Qualcuno raccontava d’averle ascoltate nel vento, un canto di mare e pioggia, una melodia di temporale lontano. Il vecchio greco però sapeva che le sirene incantano per sempre, e nessuno è mai vissuto per raccontare.
Al diavolo, pensa grongo e tira un sasso nell’acqua, mira un grasso gabbiano appollaiato, parassita di pescherecci. L’uccello stride e sfila via con colpi d’ala, pesanti. Al diavolo animali, e uomini come gabbiani parassiti!
Il dottore invece si bloccava tra nuvole di sigaro, le sirene, chissà se erano state le sirene a farlo restare tra quelle casupole lambite dall’acqua, pronte a partire con la prima mareggiata come barche, con il carico della loro gente. Poteva anche crederci, poteva essere meglio crederci. Riprendeva la passeggiata.
Intanto il cielo si raccoglie sopra di loro come un predatore prima d’attaccare la preda, prima di balzare sulla baia, sulla striscia di case costruite una sull’altra nel digradare della costa come un gioco di bambini. Le nubi si preparano a scompigliare quel gioco, a renderlo adulto. Più distante dall’insenatura, dentro un’apertura di smeriglio sciolgono le ombre dei traghetti che portano in Grecia, facendo la spola dal porto della città. Anche la figura del dottore diventa un’ombra. Anche quella di grongo. La voce del mare rintrona alle orecchie.
Voglio andare in mare, ora, subito, una barca, voglio una barca, incontro al canto delle sirene, grongo scava con gli occhi le nebbie di scirocco dove nessuno s’avventura. Voglio andarci. Nella foschia vagano parole di quel canto senza suono, e senza bocche. – Una barca! Mi piglio una barca! Una delle vostre barche. – sbraita ancora, ai pescatori.
Non è tempo d’uscire in mare, i pescatori sul molo. Sbirciano nuvole, cacciano mosche moribonde, rammendano reti, avviluppati in reti come pesci a mare. Una barca? Con quel tempo? A un perdigiorno e lazzarone di contrabbandiere? Scuotono la testa e cacciano nugoli d’insetti impazziti nel languore violento della fine. Grongo fissa ancora il mare, emette un mormorio ventriloquo, lo sa fare, mormorio masticato dallo stomaco, minaccioso.
– Che fai? Parli solo, grongo? Parli con lo stomaco? – sego ride. E’ arrivato mescolandosi le mani in tasca come sempre, lo guarda. Che fai? Come a dire, vieni con me, amico, lascia perdere.
– Grongo parla con lo stomaco, meglio che star muti come sua madre. – medusa, attaccato a sego, s’aggiusta una zazzera di capelli davanti agli occhi, mezzo chiusi, biascica a vanvera dal suo solito torpore.
Grongo gli lancia un’occhiata violenta. Mia madre non è muta. Però grongo non ne ha mai sentito la voce. Anche se a volte… un ricordo di bambino, forse un canto sussurrato – sua madre? – come la voce delle sirene. Non sapeva se fosse una fantasia dei ricordi, o ancora il canto del mare.
– Vieni, grongo. – sego s’asciuga il viso untuoso, l’hanno soprannominato sego per questo. Ho medusa alle costole, non me lo scrollo, vieni con me, grongo. Al porto. A scivolare come sego squagliato tra sfaccendati e profittatori, tra viaggiatori spaesati, tra razze diverse. Tutte razze diverse quelle degli uomini. Si caccia le mani più profonde in tasca, bestemmia contro lo scirocco che fa sudare, contro le tasche sfondate. Insomma, che hai, grongo?
Ma grongo è fisso all’orizzonte che si divide e ribolle in strisce opache.
Sego tossicchia, come ogni volta che non capisce, che guardi? Non c’è niente in mare. Quante volte sono scesi sott’acqua insieme, lui e grongo. Che c’era? Solo il rischio di restare incagliati nei cassoni, e venire a galla dopo giorni, affogati. Tu non hai paura, perché il grongo è un pesce di tane, pensa sego e tossicchia un’altra volta, neanch’io ho paura se tu non hai paura. Medusa ghigna, assonnato come sempre, dietro l’amico.
Voglio una barca per andare in mare.
I pescatori alzano le spalle, perdigiorno, il contrabbando, quelli non sanno cos’è il lavoro. Si massaggiano le braccia stanche di mille reti, le mani dure come le chiglie delle barche, segate da reti. Che hai, grongo? sego tossicchia. Accorda contro i pescatori del molo: – A voi, vi trovano morti, avvolti nelle vostre reti, e mangiati da queste mosche come pesci di un altr’anno. – Digrigna scacciandosi una mosca dalla faccia viscida. Torna a guardare grongo. Che pensi? Si sforza di capire, la sua faccia di sego squaglia del tutto. Ora ha solo voglia di tuffarsi fra la folla del porto.
Intanto le reti ondulano più forte al vento. Le nuvole s’avvicinano. Un pescatore fiuta, domani… forse… se il vento… Domani, la parola resta incagliata, come gli sprovveduti o temerari annegati fra i cassoni. Domani, ghigna dal suo dormiveglia medusa. Domani, il dottore si dondola con il sigaro in bocca, e le mani intrecciate dietro la schiena. Raccomanda pillole. In ambulatorio, domani, dondola il capo passando lo sguardo sullo stesso posto già visto, quasi debba spiegarselo per l’ennesima volta. Le sirene, pensa, questa gente le aspetta, le vedrà, domani. Un giorno sarebbero affiorate davvero le sirene, lui ne era certo, ansimando tra branchie, strisciando fra dolcezze sui ciottoli del bagnasciuga. Ma le sirene sono bestie, bestie di mare, non di terra, avrebbero avuto solo il tempo di agonizzare sfiatando sulla riva.
– Dottore, il temporale! – il vecchio greco avvertiva.
Il dottore gli rivolgeva un sorriso o no, la solita espressione. Domani, dopo il temporale, troveremo le sirene spiaggiate, addormentate sulla riva, o morte è lo stesso. Se ne tornava all’ambulatorio tra l’ossessione di muri grigi delle casupole. Domani, domani. Ma oggi era già uguale a domani.
– Anche tu, grongo, piove! – Il greco è già in cammino.
Ma grongo non si muove invece. Le nuvole s’avvicinano. Anche il canto. La voce delle sirene diventa voce di morti affogati, di corpi prigionieri di fondali, ondeggianti tra alghe, voce di chi neanche morto s’accontenta di star muto e attaccato a una roccia come un’alga. Eppure la bocca di sua madre era perfettamente muta. Grongo l’avrebbe decifrata, la voce del mare, fosse l’ultimo giorno, del mare o di sua madre.
– Ma che vuoi fare? Startene qui tutto il giorno? – Sego soffre, sbuffa contro grongo.
Prendiamo una barca, sego, e andiamo in mare.
– Giriamo per i moli del porto. – Sego ruota un dito per indicare. Le vie attendevano, impazienti, e la faccia del ragazzo luccica di più, più untuosa.
– Il mare di scirocco è traditore. – Ghigna medusa. Ma chi non è traditore?
I pescatori scuotono ancora la testa. L’eredità di una madre che ha partorito da vecchia. Questo capita a partorire da vecchi. Matta, e così è stato di suo figlio. Però ricordavano con un brivido una donna giovane che si pettina seduta sul molo, davanti al brillio senza posa del mare. Così bella, e intoccabile. Così pazza, davanti all’orizzonte lucido, davanti alle navi che apparivano d’un tratto dalla cecità dello spazio, sagome apparse dove prima non c’era nulla. Nessuno l’avvicinava, quella donna, nessuno ne aveva il coraggio.
“L’avrei ucciso con queste unghie chi m’avesse toccata.” Scriveva la vecchia moribonda.
– Sì, mi ricordo. – Mormorava soprapensiero il dottore. Ma non hai mai pensato… non dico l’amore, ma almeno una compagnia, o soltanto un istinto… A lui succedeva. Certe notti, nella sua stanza vuota, un furore lo prendeva ancora da vecchio, che non lo faceva respirare. Allora gettava via il libro che non riusciva a leggere, e usciva di furia. Irrompeva d’un tratto tra le viuzze delle puttane del porto, tra luna e mare, tra cielo di stelle, si tuffava annusando profumi di donna, e sesso consumato per strada. Le donne lo attorniavano, è il dottore, il nostro dottore. No, non sono il vostro dottore. Raccontiamogli i nostri mali, le ossa rotte e le cinghiate, il freddo della pelle, della pancia, e la peste dei marinai infettati da troppi bordelli. Lui socchiudeva gli occhi come fosse attento ai discorsi, come faceva in ambulatorio. Ma non era il loro dottore. E’ il nostro dottore. No. Che ci fai qui? Sono il vostro dottore, tornava sfatto in ambulatorio. La stanzetta aveva la luce accesa come l’aveva lasciata. Raccattava con dita tremanti il libro da terra, ma inutilmente, non c’era più verso di leggere, di capire una pagina. Mi ricordo. Eri così bella. Come non pensare a lei certe notti, caviglie sottili e piedi agili come pinne, occhi di mare in tempesta, capelli ondulati di correnti, come non vedersela davanti, la veste bianca e svolazzante come un gabbiano al vento. Poteva volare se voleva, come un gabbiano. E portarsi chiunque in alto, nel vuoto, con sé. Bella, più bella, intoccabile.
“Avrei ucciso con queste unghie…”
Il dottore leggeva ai margini del vecchio giornale accartocciato. Gli cadeva lo sguardo sull’articolo della pagina, la stampa sbiadita dal tempo. Parlava d’un cadavere ritrovato al largo, senza testa. Forse un pescatore annegato, un corpo violato dai pesci e dall’acqua, rimasto senza nome. Un fatto di chissà quanti anni prima, se lui neppure lo ricordava. La vecchia doveva averlo conservato da allora. Il foglio era spiegazzato, ma non solo dal tempo. Forse da uno stropiccio continuo di dita?
La penna scricchiolava, il respiro della vecchia ansimava.

(Continua…)

 

Mario Condorelli

E' nato a Catania nel 1977. Laureatosi in medicina lavora con responsabilità dirigenziali nel settore della Sanità. Ha esordito con la narrativa nel 2000 e ha quindi pubblicato romanzi molto apprezzati dalla critica.