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Mio nonno non era antifascista. Si limitava, nel chiuso del circolo dei zolfatai, a ridere un po’ di quello che accadeva nel palazzo di fronte, dove stavano quelli che comandavano. Scherzava ma senza esagerare. Li conosceva  uno per uno. Su di loro e sui loro padri avrebbe avuto tanto da dire e da ridire ma si tratteneva ed osservava.
Andava a messa la domenica e in chiesa se ne stava con le spalle appoggiate alla porta come se dovesse, per qualche motivo, fuggire da un momento all’altro. Alle sfilate, aveva un’età che lo esonerava dal  partecipare, se ne stava a guardare quelli che recitavano la parte di duri ed invincibili. Si credeva un intellettuale, aveva fatto appena la terza elementare ma aveva letto la storia dei paladini di Francia e la raccontava a chi voleva e a chi non voleva ascoltarlo. Era come se avesse una laurea. Molti lo ammiravano per come sapeva raccontare le storie. Era sempre allegro, fuori di casa, e la gente gli aveva appioppato il soprannome di Paradiso. Io ero spesso la sua vittima. Anche se non volevo stare ad ascoltare e avrei preferito andare a giocare al pallone, dovevo obbedire a mia madre che mi diceva “parla un po’ con il nonno, fagli compagnia”. A volte chiedevo “Nonno, raccontami la storia di Serafino” si scherniva, mia madre non voleva che mi raccontasse storie di morti ammazzati ma poi ci ripensava e incominciava a raccontare dei morti nella miniera, colpiti dal grisou, i morti nella guerra fatti a pezzi dalle bombe ed altre storie simili. Mai saputo quante di quelle storie fossero  vere o inventate.  La notte, quei morti venivano a farmi visita e non riuscivo a prendere sonno. Mio nonno, è inutile dirlo, non era fascista. Neanche Serafino Raffo era fascista, era solo un povero cristo che si arrabattava a guadagnarsi da vivere facendo dei lavori che nessuno voleva più fare. Rideva sempre da fare rabbia. Non era sciocco, aveva uno sguardo vivo ed attento, ma rideva  sempre, da solo o quando la gente gli chiedeva qualche cosa. Non era alto, strascicava una gamba per una certa malattia da bambino non curata adeguatamente.
L’occhio leggermente strabico e con una cicatrice che gli aveva lasciato, quand’era ancora bambino, la voglia di starsene solo a pensare ma sugli alberi dove  saliva con una scioltezza da scimmia. Guardava in faccia la gente e rideva  e la gente a volte si arrabbiava e minacciava castighi  sentendosi presa in giro. Bandiva il pesce con una voce squillante da tenore e si accontentava per pagamento di una cartata di sarde che gli regalavano a fine giornata. Correva a casa a friggerle e mangiarle di gusto con o senza  pane. Passando dall’osteria, qualcuno gli offriva  un bicchiere di vino di quello buono e Serafino non ringraziava, ma rideva. Faceva un gesto con la mano, mentre si allontanava. Non era un saluto, voleva dire forse a modo suo, “vedremo come va a finire, aspettiamo perché c’è sempre un dopo”. Non è necessario attenderlo, arriva anche se non vuoi. Rideva anche quando i ragazzi gli correvano appresso e lo strattonavano. A volte si fermava, per un attimo , smetteva di ridere e guardava i ragazzi con aria truce che a questo punto avevano paura e si allontanavano. Gli chiedevano  “Perché ti chiami Serafino” e lui riprendeva a ridere “ero bello come un angelo” rispondeva e andava via. Non faceva male ad una mosca. Al bar dello sport, dove spesso si fermava, spesso lo chiamavano a fare il quinto a briscola in cinque, gioco in cui era diventato davvero un esperto. Solo in quell’occasione smetteva di ridere, si sbracciava, imprecava e rimproverava il compagno che non aveva capito il suo segnale. Quando perdeva, per qualche minuto diventava triste ma subito si riprendeva e ritornava a ridere di tutto, della partita, della vita e di quelli che comandavano e che stavano di sopra a far niente e guadagnavano un sacco di soldi. Non si lamentava, non gli mancava niente, aveva la sua pensione “mi hanno riconosciuto scemo” diceva. Poi venne la guerra e per un certo tempo non si seppe più niente di Serafino. Era scomparso. Se ne stava in campagna a coltivare il podere della sorella. In verità la sorella lo tratteneva in campagna per evitargli i guai. Se in Paese arrivava qualche personaggio importante, venivano ad arrestarlo. Le autorità ci tenevano a far sapere che mantenevano l’ordine pubblico con pugno di ferro. Intanto i veri criminali, quelli che rubavano, stavano fuori a studiare come sfruttare al meglio l’occasione capitata  prima che la guerra venisse a cancellare tutto e costringesse a cambiare bandiera e padrone. Ad un certo punto anche le guerre finiscono. Anzi, molti erano convinti che fosse durata abbastanza la cuccagna e la guerra arrivava a puntino a mettere le cose a posto. S’era visto come erano andati i combattimenti, la guerra sulle spiagge, le fortezze invincibili. Tutte parole.  Gli alleati,  gli americani, erano stati accolti con le braccia aperte, da amici e liberatori. Molti battevano le mani. Molti, di quella falange di eroi a parole, avevano spuntato le armi  prima di arrendersi per evitare di farsi male nella confusione della fine. Non prigionieri, ma amici, da sempre. Assieme agli altri a battere le mani  dopo aver dismessa la camicia nera ed indossatane una di colore celeste come un cielo d’agosto.
Per questo Serafino, abbandonato il podere della sorella, saputo che la guerra volgeva alla fine e che gli americani stavano arrivando, rientrò in paese. Parlava con questo e con quello, si informava, entrava in tutti i crocicchi per sentire di che parlavano, per dire la sua finalmente, come se si sentisse  liberato, lui che in fondo qualche libertà se l’era presa. Qualcuno notò anche che Serafino non rideva più, era come se avesse acquistato il senno o non lo avesse mai perduto. Qualcuno pensò anche che aveva fatto lo scemo così a lungo per non “pagare la dogana” come si dice intendendo per non pagare lo scotto. Quando Serafino seppe che gli americani erano giunti al Padreterno, si vestì di tutto punto. Prese il manico della scopa, vi legò alcuni pezzi di stoffa come per fare una bandiera, ma non gli riuscì di trovare un drappo rosso e siccome aveva fretta di uscire, ne fece a meno. “Basterà sventolarla per capire che è una bandiera” pensò e si avviò di corsa come poteva. In piazza c’era tanta gente e con loro e davanti a loro si avviò per andare incontro agli americani. Gridava, si sbracciava, veniva avanti. Il soldato dentro il carro armato lo vide, incominciò a seguirlo, nel mirino dell’arma che imbracciava. Non capiva  cosa voleva fare quell’uomo con quell’arnese in mano. Era perplesso ma lo seguiva pronto a sparare, se il caso. Quando si rese conto che quell’arnese lungo coperto da un drappo nero poteva essere un’arma premette l’indice sul grilletto e sparò. Da quell’ammasso di ferro in movimento uscirono come delle vampate di fuoco e per un attimo Serafino sembrò un aquilone sbattuto dal vento, poi un fantasma che sbatteva le braccia nel vuoto e poi… un tutt’uno con la bandiera che si era fabbricato. Fu così che Serafino cambiò cognome e diventò per tutti Serafino Bandiera.

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